Il quadro rappresenta il momento cruciale della favola di Amore e Psiche, quello in cui la bella fanciulla scopre le fattezze del suo amato illuminandolo con una lucerna mentre egli riposa. Quando una goccia di olio bollente cade su Cupido, questi si desta e abbandona la sua amante. Solo dopo molti altri ostacoli la storia d’amore troverà un lieto fine. A lungo ritenuta una copia da un originale di Alessandro Varotari detto il Padovanino, questa tela è stata recentemente attribuita a Giovanni Battista Paggi e riconosciuta quale prototipo dell’anzidetto dipinto.
(con listello tardo settecentesco in stucco) cm. 160 x 174 x 5
Roma, collezione Borghese, 1790 (Inventario, 1790, Stanza X, n. 6); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 25. Acquisto dello Stato, 1902.
Questo dipinto, le cui dimensioni attuali sono il risultato di un ampliamento del supporto avvenuto in epoca imprecisata ma certamente antica, rappresenta il momento culminante della favola di Amore e Psiche raccontata da Apuleio nell’Asino d’oro (o Metamorfosi, libri IV-VI): il dio dell’amore Cupido si è innamorato della mortale Psiche e, nonostante il divieto di avere legami la fanciulla, le fa visita notte dopo notte alla condizione di mantenere celata la propria identità. Psiche, presa dalla curiosità di vedere il suo amante notturno che le aveva sempre negato di svelarsi, decide di sfidare il divieto e, mentre Amore riposa, scopre le sue fattezze illuminandolo con una lampada. Quando una goccia di olio bollente cade su Cupido, questi si desta ed è costretto ad abbandonare la sua amante. Solo dopo il superamento di prove terribili la mortale riuscirà a ricongiungersi al suo amato nel regno degli dei.
Nel quadro Borghese, Psiche volta di tergo nella mano destra tiene un coltello (simbolo di diffidenza) mentre con l’altra mano sorregge una lanterna. È nell’atto di illuminare Amore dormiente semisdraiato e nudo, solo parzialmente coperto da un drappo rosso. Secondo l’interpretazione umanistica l’episodio raffigurato esprime l’allegoria della tensione dell’Anima (Psiche) all’unione col Desiderio (Eros).
La tela è documentata in collezione Borghese solo a partire dall’inventario del 1790 circa, descritta come opera del genovese Bernardo Strozzi detto il Cappuccino. Con la stessa attribuzione è poi citata nell’elenco fedecommissario del 1833 ma anche, prima del passaggio allo Stato dell’intera Galleria Borghese, nelle schede del Piancastelli. Dal punto di vista storico-critico l’opera è stata dapprima giudicata da Adolfo Venturi (1893) come di ignoto autore del XVIII secolo; in seguito è stata correttamente ricondotta al XVII secolo da Roberto Longhi (1929) e così catalogata anche da Paola Della Pergola (1955), che la colloca nell’ambito della pittura ligure intorno alla metà del secolo. Per Giuliano Frabetti (1959) potrebbe trattarsi di una copia di uno sconosciuto originale di Luca Cambiaso, mentre più recentemente è stato proposto che si tratti di una copia da un quadro di Alessandro Varotari detto il Padovanino (Stefani 2000; Herrmmann Fiore 2006), il cui presunto prototipo è più volte passato in asta in Germania negli ultimi due anni (l’ultima presso Hampel, 21 marzo 2024, lotto 283), del quale si conosce pure un’altra versione, in controparte, anch’essa in collezione privata (Ruggeri 1993). Nonostante la critica abbia ripetutamente indicato la tela Borghese come una copia, forse sulla scorta del parere di Longhi che la giudicò di qualità poverissima, ad un esame più approfondito bisogna invece rilevarne il valore compositivo, tonale e luministico, che potrà verosimilmente riemergere in seguito alla necessaria pulitura. Recenti studi di Ettore Giovanati (in corso di pubblicazione) dimostrano su base stilistica che il dipinto rientri pienamente nei modi di Giovanni Battista Paggi, pittore genovese direttamente influenzato dall’arte di Luca Cambiaso. Il debito nei confronti di Cambiaso si è però qui dissolto nella rinnovata sensibilità luministica e coloristica maturata dal suo artefice durante il lungo soggiorno fiorentino negli ultimi vent’anni del Cinquecento, che porta a datare l’opera al primo decennio del nuovo secolo. La sintesi compositiva, l’essenzialità dell’ambientazione e l’irradiarsi della luce dalla lampada ad olio rendono protagoniste le forme solide e dorate dei corpi, seminudi e sensuali, dei due personaggi. Dal punto di vista formale, nella posa di Amore, è da notare anche il richiamo alla statuaria antica e alla ninfa di sinistra del Baccanale degli Andrii di Tiziano, citazioni non scontate per un pittore come Paggi. Per questioni cronologiche, ma non solo, si dovrebbe ribaltare l’ipotesi secondo la quale il quadro Borghese sarebbe copia di quello del Varotari, costituendone semmai il prototipo, al quale il pittore padovano si ispirerà per dipingere il quadro di analogo soggetto oggi conservato alla Staatsgalerie di Stoccarda (inv. 178).
Pier Ludovico Puddu