Questo raffinato dipinto su rame si inserisce con buona probabilità nella produzione italiana di Jan Brueghel il Vecchio, pittore fiammingo giunto a Roma nel 1591, particolarmente ricercato da una committenza elevata per l'esecuzione delle sue opere. L'opera raffigura un vaso di vetro colmo di fiori, sulla cui superficie si riflette l'immagine di una finestra. Al suo interno è ritratto un bouquet, dipinto su uno sfondo scuro che mette in risalto la brillantezza dei colori e la vivacità dei suoi fiori, tra i quali volano una farfalla e una libellula. II dipinto, simile a un altro rame - attribuito sempre a Brueghel (Galleria Borghese, inv. 516) - non riproduce semplicemente la realtà in modo analitico, ma sottintende significati e temi più profondi come la vanitas e la caducità della vita.
La provenienza di questo dipinto è tuttora ignota. Secondo buona parte della critica, faceva parte delle opere sequestrate nel 1607 da papa Paolo V al Cavalier d'Arpino, confluite in seguito nella collezione di Scipione Borghese. Tuttavia, come già osservato da Paola della Pergola (1959, p. 155), non si può escludere che questo rame possa essere pervenuto ai Borghese attraverso l'eredità di Olimpia Aldobrandini (Della Pergola 1959, p. 217, n. 60), oppure in seguito all'acquisto di "dodici quadretti de diversi frutti e fiori depinti in rame", venduti ai Borghese nel 1613 da Giacomo Costa (Curti 2011, pp. 218-219; Della Pergola 1959, p. 217, n. 60).
Quale che sia la sua provenienza, è certo che l'opera venne segnalata per la prima volta in collezione Borghese a partire dal 1693, descritta dall'estensore del relativo inventario (Inv. 1693, St. XI, n. 122) come un 'quadretto' di pittore anonimo.
Cercando di dare un nome all'artista, nel 1833 il compilatore degli elenchi fidecommissari attribuì il rame a Mario de' Fiori, nome accettato qualche anno dopo da Giovanni Piancastelli (1891), ma respinto nel 1893 da Adolfo Venturi che dal canto suo lo riferì ad Abramo Mignon. Tale attribuzione, messa in dubbio da Giulio Cantalamessa e da Roberto Longhi (1928), fu rigettata da Paola della Pergola, la quale assegnò il dipinto a Jan Brueghel il Vecchio, figlio del noto pittore Pieter Brueghel il Vecchio.
L'assegnazione di questo rame al catalogo dell'artista fiammingo, accolta positivamente da Stefania Bedoni (1983), Ferdinando Bologna (1992), Maurizio Calvesi (1996) e Francesca Curti (2011), è stata invece rifiutata da Klaus Ertz (1979) che, in uno studio monografico sul pittore, pur ritenendo il dipinto Borghese vicino alle composizioni di Brueghel, lo ha espunto dal catalogo. Nel 1995, avanzando dubbi sulla autografia del rame - così come prima di lei i colleghi Maurizio Marini (1981) e Sergio Guarini (1995) - Maria Rosaria Nappi ha ipotizzato che il rame Borghese potesse essere una riproduzione della perduta caraffa di fiori di Caravaggio ricordata dalle fonti (Bellori 1672, p. 202), ipotesi però smentita sia da Maurizio Calvesi (1996), sia dalle ricerche documentarie della Curti (2011, pp. 65-76, 219) che situano la presenza di Caravaggio nella bottega del Cavalier d'Arpino nel 1596, quando il fiammingo era già partito dall'Urbe. Tale congiunzione (Caravaggio-Brueghel-D'Arpino) si poneva di fatto nel solco delle idee tracciato da Paola della Pergola e seguito negli anni da Federico Zeri (1976), Alberto Cottino (1989) e Mina Gregori (2003). La studiosa, infatti, ritenendo fattibile la provenienza della Caraffa dalla collezione dell'arpinate, aveva supposto un certo legame tra quest'opera e Caravaggio, relazione individuata anche da Aldo de Rinaldis che però, sulla scorta di un passo delle Vite di Giovan Pietro Bellori (1672, p. 202), attribuì in tutta fretta la Caraffa - così come le altre pitture di natura morta presenti nell'elenco degli oggetti sequestrati al Cavalier d'Arpino - al giovane Caravaggio.
Il dipinto raffigura un vaso di vetro pieno di fiori, sulla cui superficie si riflette l'immagine di una finestra. Al suo interno è ritratto un bouquet, dipinto su uno sfondo scuro che mette in risalto la brillantezza dei colori e la vivacità dei suoi fiori, tra i quali volano una farfalla e una libellula, simboli di resurrezione e di trascendenza. L'opera, simile a un altro rame di Brueghel - sempre in collezione Borghese (inv. 516) - non riproduce semplicemente la realtà in modo analitico, ma sottintende significati e temi più profondi, come quello degli affetti, della vanitas e della caducità della vita, sottolineati dalla specie dei fiori dipinti, tra i quali si riconoscono il tulipano, la malva e il garofanino che alludono rispettivamente alla nobiltà, alla modestia e alla morte. Secondo Calvesi (1996), infine, la caraffa a forma di sfera rimanderebbe al mondo e gli infissi della finestra riflessi sul bordo alla croce cristiana.
La datazione di questo dipinto, eseguito secondo Ertz intorno al 1606 - cioè dopo il Vaso dei fiori fatto dal pittore per il cardinale Federico Borromeo (Milano, Pinacoteca Ambrosiana) - è stata fissata da Kristina Herrmann Fiore (2004; Id. 2010) al 1591-1595, arco di tempo che collima con la frequentazione di Brueghel e di altri pittori di natura morta con la bottega dell'arpinate, dove ebbero modo di interessarsi ai giochi di rifrazione della luce sugli specchi e sulle sfere (Curti 2011; Berra 2014).
Antonio Iommelli