Proveniente con tutta probabilità dalla raccolta di Benedetto Martiniani, il dipinto è stato a lungo considerato un pendant della Lucrezia (inv. 75), variamente attribuito dalla critica a un seguace di Baldassarre Peruzzi, a Jacopino del Conte e - da ultimo - al pittore pistoiese Leonardo Grazia. L'opera raffigura la regina Cleopatra, ritratta con un’elaborata acconciatura, mentre un aspide, avvolto intorno al collo a mo' di collana, le sta per mordere uno dei seni. Secondo la tradizione, infatti, appresa la notizia della morte di Marco Antonio, la sovrana egizia decise di suicidarsi, facendosi portare una cesta contenente un serpente, il cui potente veleno stroncò la donna e le sue due fidate ancelle.
Salvator Rosa (cm 96 x 72 x 7)
Roma, collezione Benedetto Martiniani, ante 1620 (Inventario 1693); Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza VI, n. 36); Inventario 1790, Stanza IX, n. 43; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 37. Acquisto dello Stato, 1902.
Secondo quanto ipotizzato da Paola delle Pergola (Eid. 1959), il dipinto proverrebbe dalla raccolta di Olimpia Aldobrandini senior, descritto in un primo inventario, datato 1626, come "Un quadro con la Cleopatra distesa in tavola longa di mano di Meccharino da Siena" e nel 1682 come "Un quadro di una Cleopatra che si fa morsicare la zinna sinistra in tavola scrostata e rotta alto p[al]mi tre e mezzo incirca [...]" (cfr. Della Pergola 1959). A detta della studiosa, non c'era alcun dubbio (Ead. 1959) che l'opera Borghese fosse da identificare con la Cleopatra Aldobrandini, riconoscibile, sempre secondo Della Pergola, anche grazie alla spaccatura ricordata nel documento. Tale ipotesi, sicuramente molto affascinante, non trova però riscontro né con la descrizione del soggetto riportata nel primo inventario, in cui si accenna chiaramente a una 'Cleopatra distesa'; né con il supporto citato in entrambi i documenti, dove si parla espressamente di 'tavola' anziché di lavagna.
Abbandonata la pista Aldobrandini, nel 2014 Andrea G. De Marchi (Id. 2014), dopo aver avvicinato l'opera alla collezione seicentesca di Giovanni Francesco Salernitano (in Pietra dipinta 2000) ha lanciato una nuova ipotesi: la Cleopatra sarebbe giunta ai Borghese in seguito alla vendita della raccolta perugina dei Meniconi, smembrata a partire dal 1651 e immessa poco dopo sul mercato romano, in cui è citata un'opera con soggetto analogo. Ma nonostante questa ipotesi risulti molto più percorribile rispetto alla pista tracciata da Della Pergola, si ritiene qui opportuno mantenere la provenienza segnalata nell'inventario Borghese del 1693, riferimento pressoché ignorato dalla critica. L'opera, infatti, venne rubricata come 'del Martiniani', alias Benedetto Martiniani, proprietario terriero che nel 1620 cedette a Scipione Borghese la propria vigna e con essa una decina di dipinti, molti su pietra e metalli preziosi, tra cui "un quadro di tre palmi di Pietra d'Alemagna con un ritratto di una Donna che gli gira un serpe attorno al collo e la testa alla zinna" (Inv. 1693).
L'opera raffigura Cleopatra, figlia del faraone d'Egitto Tolomeo XII, mentre un aspide, avvolto intorno al collo a mo' di collana, le sta per mordere uno dei seni. La sovrana egizia è qui ritratta con i suoi classici attributi. Secondo Plutarco, infatti, appresa la notizia della morte di Marco Antonio, la donna architettò il proprio suicidio, facendosi prima preparare un bagno caldo e, sistematosi un prezioso diadema tra i suoi lunghi capelli, ordinò che in gran segreto le fosse portata una cesta con un serpente. In pochi istanti, come afferma lo scrittore nelle Vite parallele, il rettile iniettò il suo potente veleno nel corpo di Cleopatra, uccidendo la coraggiosa monarca e con essa le due fidate ancelle.
Ispirata secondo Frederick M. Clapp (1916) a un disegno di Michelangelo Buonarroti, quest'opera, dopo una prima attribuzione a Giulio Romano (Vasi 1794), fu riferita da Giovanni Morelli al Bronzino (Morelli 1897), nome accolto favorevolmente da Adolfo Venturi (1893) ma respinto con decisione da Roberto Longhi (1928) che, dal canto suo, vi vedeva due mani diverse. Nel 1959 Paola della Pergola (Ead. 1959), partendo dall'attribuzione formulata nell'inventario Aldobrandini, parlò cautamente di un seguace di Baldassarre Peruzzi, ipotesi scartata - tra gli altri - da Pierluigi Leone de Castris (Id. 1988). Secondo lo studioso, infatti, il dipinto è da ricondurre al catalogo dell'artista pistoiese Leonardo Grazia, eseguito assieme alla Lucrezia (inv. 75) e alla Venere nuda (inv. 92), entrambe in collezione Borghese, durante il suo soggiorno romano. Tale parere, accettato dalla critica, in particolare da Andrea G. De Marchi (1994; Id. in Pietra dipinta 2000; 2014) e da ultimo da Michela Corso (2018), è qui condiviso. Il dipinto infatti mostra quei vocaboli tipici del pittore, visibili in altre sue opere, che provano la sua adesione ai modi di Giulio Romano, di Perin del Vaga e del Parmigianino filtrati in risposta alla produzione di Jacopino e del Bronzino. Da questa sintesi, operata tra Roma, Napoli e la Toscana, nasce la presente Cleopatra, vittima lasciva e malinconica, a metà strada tra una martire cristiana sottomessa al proprio destino e a una dea voluttuosa dal fare cinico e beffardo.
Antonio Iommelli