L'opera, che fu acquisita in Collezione alla fine del secolo XVIII, risente degli influssi della pittura romana di Raffaello, rielaborati attraverso lo stile di Giulio Romano. La composizione riprende quella del Compianto, realizzato nel 1530 per la chiesa di San Francesco ad Argenta (oggi a Monaco), addolcendone tuttavia l'alta drammaticità secondo moduli più accademici.
Collezione Borghese, acquisto dallo scultore Bartolomeo Cavaceppi, 1787; Inventario 1790, Stanza II, n. 17; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 10, n. 28. Acquisto dello Stato, 1902.
L’opera, acquistata nel 1787 dallo scultore e collezionista Bartolomeo Cavaceppi, arriva nella collezione Borghese tardivamente rispetto agli altri dipinti di scuola ferrarese.
Il lirismo complessivo che pervade la scena è comunicato dalla crescita della drammaticità dei gesti e delle espressioni dei personaggi attorno al corpo di Cristo, protetto da un sudario e adagiato su una pietra – che nel posizionamento angolare ricorda il verso «La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo» dal libro dei Salmi (118(117), 22) ripreso da Gesù nella Parabola dei vignaioli omicidi (Marco 12, 10; Matteo 21, 42; Luca 20, 17). Gli astanti sono posti davanti ad uno sfondo bipartito, dove a sinistra si vede la porta del sepolcro in ombra mentre a destra, sul Golgota, il pittore ha posto la scena della discesa dalla Croce miniaturizzata, per indicare il momento precedente della narrazione e completarla.
Oltre ai tradizionali attori presenti nell’episodio della Deposizione, sono presenti altri tre personaggi all’estrema sinistra: un Santo Vescovo, riconoscibile dalla mitria bianca ricamata d’oro e dal ricco piviale, San Girolamo in atteggiamento penitente mentre si percuote il petto con una pietra, e davanti a loro, in penombra di fianco a Giuseppe di Arimatea, un uomo molto caratterizzato, con ogni probabilità il ritratto del committente a cui le due personalità già elencate fanno verosimilmente riferimento.
Alcuni storici dell’arte ne hanno messo in dubbio l’autografia (Platner 1842, De Rinaldis 1948), mentre altri, sulla scia di Adolfo Venturi (1893), Roberto Longhi (1928) e Paola Della Pergola (1955), hanno ritenuto che il dipinto fosse di mano del Tisi, sebbene con discrepanze sulla sua collocazione nella cronologia dell’opera dell’artista. Secondo i primi studi (Venturi 1893), questa Deposizione sarebbe da ascrivere ad un periodo giovanile precedente al 1520, mentre un altro comparto della critica ha voluto ravvisare in questa tavola le caratteristiche del tardo Garofalo (Berenson 1936, Della Pergola 1955). Tuttavia, la composizione di questo dipinto, che riprende quella adottata da Pietro Perugino in un’opera del 1495 per il convento di Santa Chiara a Firenze, oggi presso la Galleria Palatina di Palazzo Pitti (inv. 1912 n. 164) soprattutto per quanto riguarda il corpo del Cristo posto sulla pietra angolare, per la sua componente prospettico spaziale e per la resa empatica delle emozioni dei personaggi che prendono parte all’episodio sacro, sembra perfettamente collocabile attorno al 1525 così come proposto da Fioravanti Baraldi (1993), tra la fredda e retorica Deposizione conservata presso il Bayerische Staatsgemäldesammlungen - Alte Pinakothek di Monaco di Baviera (inv. WAF 295) e la Resurrezione di Lazzaro per la cappella del Santissimo Sacramento della famiglia Vincenzi della chiesa di San Francesco a Ferrara, oggi presso la Pinacoteca Nazionale della stessa città (inv. PNFe 153, Brisighella 1700-1735, ed. 1991, p. 307 n. 38).
Lara Scanu