La tavola, identificabile a partire dal Fidecommisso del 1833, dove è ritenuta di autore ignoto, è stata attribuita dalla critica al pittore toscano Bernardino Fungai. Il soggetto, la comunione mistica di Caterina da Siena, va riconosciuto come immagine isolata della terziaria mantellata, più volte ritratta dall’artista, attivo a partire dagli Novanta del Quattrocento nella casa-santuario della santa a Siena.
L'opera raffigura la mistica toscana con la veste bianca mantata di nero dell'ordine domenicano, mentre in ginocchio attende di ricevere l'eucarestia da un angelo miracolosamente apparsole in volo.
Salvator Rosa cm 42 x 32 x 5,8
Roma, collezione Borghese, 1833 (Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 38; Della Pergola 1959). Acquisto dello Stato, 1902.
Quest'opera, dalla provenienza ignota, è stata identificata con la tavola così sommariamente descritta nell'elenco fidecommissario ottocentesco: "S[an]ta, autore incognito" (Inv. Fid. 1833; Della Pergola 1959). Attribuita in un primo momento da Friedrich von Ramdhor al Vanni (Ramhdor 1787), tale nome fu ben presto dimenticato: il dipinto, infatti, fu elencato come anonimo nelle schede di Giovanni Piancastelli (1891) e solo nel 1893 avvicinato da Adolfo Venturi al poco noto pittore perugino Sinibaldi Ibi, scartando un precedente riferimento al Mazzolino (cfr. Della Pergola 1959).
Nel 1959, in occasione della pubblicazione del catalogo dei dipinti della Galleria Borghese, Paola della Pergola riferì la composizione a Bernardino Fungai, artista senese, noto per aver affrescato sul finire del Quattrocento la cupola del duomo di Siena. A detta della studiosa, tale attribuzione trovava la sua conferma non solo con una tavoletta pubblicata nel 1954 sul Burlington Magazine (già Londra, coll. M.H. Drey) con la quale il quadro Borghese, sebbene stilisticamente più debole, condividerebbe diversi elementi, ma anche e soprattutto con altre opere dell'artista, tra le quali si cita l'Assunta dell'Accademia di Siena. Secondo Della Pergola, infatti, queste tre opere mostrerebbero diverse analogie, dal gusto manierato del paesaggio all'immobilità dei visi dei personaggi.
Tale parere, confermata nel 1966 da Lada Nikolenko (1966), non è stato mai più messo in discussione dalla critica (cfr. C. Stefani in Galleria Borghese 2000; Herrmann Fiore 2006).
Antonio Iommelli