L’opera è segnalata per la prima volta nel 1642 nell’inventario dell’eredità di Ortensia Santacroce, moglie di Francesco Borghese. Attribuita nel 1833 a Francesco Vanni, tale nome è stato accolto dalla critica per gli indubbi spunti barocceschi, osservabili particolarmente nella figura del Bambino e nell’impiego di colori accesi.
Il dipinto rappresenta le nozze mistiche di Caterina da Siena che, in ginocchio e coronata da un serto di spine, sta ricevendo l'anello da parte del suo divino Sposo. Ad assistere alla scena, oltre alla Vergine, compaiono Francesco d'Assisi e Giovanni Evangelista, quest'ultimo raffigurato mentre mostra una coppa con un serpente, suo tipico attributo iconografico. Secondo la tradizione, infatti, il santo - obbligato a bere del vino infetto - tramutò miracolosamente il veleno contenuto nel calice in un viscido serpente.
Salvator Rosa, 109 x 89 x 8 cm
(?) Roma, collezione Ortensia Santacroce, 1642 (cfr. Inventario 1642, n. 1 pubblicato da Della Pergola 1959, p. 56, n. 82); (?), Roma, collezione Borghese, 1650 (Manilli 1650, p. 88); Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza VIII, n. 9); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 37. Acquisto dello Stato, 1902.
Questo dipinto proviene con buona probabilità dall'eredità di Ortensia Santacroce, moglie di Francesco Borghese, come sembra suggerire una delle opere elencate nell'Inventario delle Robbe dell'Ecc.ma Sig.ra Hortensia S.ta Croce Borghese del 1642: "Un quadro di S. Caterina, la Madonna, S. Francesco e S. Gio[vanni] Evangelista" (Della Pergola 1959, p. 56, n. 82). Tale provenienza, indicata da Paola della Pergola, è stata accettata da tutta la critica (Hermann Fiore 2005 con bibl. precedente), ad eccezione di Francesca Profili (2003, p. 70), la quale ha immaginato che la tela potesse rientrare nel gruppo delle opere appartenute al cardinale Paolo Emilio Sfondrato e da questi cedute a Scipione Borghese nel 1608 per assolvere al pagamento della pensione sul vescovado di Cremona.
Passato in data imprecisata nella collezione Borghese, secondo Paola della Pergola il quadro sarebbe stato visto nel 1650 da Iacomo Manilli presso il casino di Porta Pinciana, descritto dallo scrittore (1650, p. 88) come "un quadretto dello Sposalizio di S. Caterina, viene stimato del Fattore", la cui descrizione - 'un quadretto' - non sembra però corrispondere alla tela in esame. È sicuro invece che questo Sposalizio sia quello segnalato nell'inventario del 1693, come confermano sia le misure indicate - "un quadro di 4 palmi in tela" - sia il riferimento al numero inventariale - "n. 88" - tuttora visibile sulla tela in basso a destra.
L'opera fu assegnata per la prima volta al pittore senese Francesco Vanni dall'estensore degli elenchi fidecommissari (1833, p. 37), attribuzione condivisa da Giovanni Piancastelli (1891, p. 273) e da Adolfo Venturi (1893, p. 67), il quale vi riconobbe un forte afflato baroccesco, specialmente nei rossi accessi del volto e delle gambine del Bambino. Avvicinata da Roberto Longhi (1928, p. 182) al catalogo di Ventura Salimbeni "per la gamma dei colori più abbassata", la tela fu timidamente riportata nell'orbita del Vanni da Paola della Pergola che, nel catalogo della Galleria Borghese (1959, p. 56, n. 82), accennò a "un maestro assai vicino al Vanni, se non proprio [...] Vanni stesso". Tale parere è stato in seguito accettato dalla critica, in particolare da Kristina Hermann Fiore (2005, pp. 386-387) che ha datato il dipinto al 1605-1610.
L'opera rappresenta le nozze mistiche di Caterina da Siena che, in ginocchio e coronata da un serto di spine, sta ricevendo l'anello da parte del suo divino Sposo. Ad assistere alla scena, oltre alla Vergine, compaiono Francesco d'Assisi e Giovanni Evangelista, quest'ultimo raffigurato mentre mostra una coppa con un serpente, suo tipico attributo iconografico. Secondo la tradizione, infatti, il santo - obbligato a bere del vino avvelenato - tramutò miracolosamente il liquido, contenuto nel calice in un viscido serpente.
Due opere con lo stesso soggetto eseguite dal pittore si conservano presso una collezione privata senese e il Konstmuseum di Göteberg (Bagnoli 2006, pp. 58-63).
Antonio Iommelli