È possibile che si tratti di un'opera eseguita da un pittore fiammingo attivo a Ferrara, imitatore dello stile del Garofalo. Il soggetto del dipinto è tratto dal Vangelo di Giovanni (4, 6-10), dove si racconta di Gesù che stanco dal viaggio verso la Galilea, chiese a una Samaritana, notoriamente avversa a un giudeo, di offrirgli da bere l’acqua del pozzo di Giacobbe.
Collezione Borghese, Inv. 1693, Stanza V, n. 280; Inventario 1790, Stanza dell’Ermafrodito, n. 36; Inventario Fidecommissario Borghese Borghese 1833, p. 33, n. 25. Acquisto dello Stato, 1902.
Questa opera, insieme a quella di uguale soggetto e di medesimo contesto produttivo presente nella collezione Borghese (inv. 221) certamente a partire dall’inventario del 1693, presenta uno schema narrativo più volte utilizzato dal Garofalo e dalla sua scuola nella raffigurazione del tema tratto dal Vangelo di Giovanni (4, 13-15): Cristo è seduto sul pozzo di Giacobbe mentre dialoga con una donna di Samaria chiedendole da bere e promettendole un’acqua in grado di dissetarla per l’eternità. La scena si svolge entro un paesaggio raffigurante, secondo il racconto neotestamentario, la città di Sichem, luogo in cui la Samaritana giungerà per annunciare la venuta del nuovo Messia.
Adolfo Venturi (1893) intravede in queste composizioni una forte influenza fiamminga, molto probabile per gli artisti ferraresi vista la massiccia presenza nella capitale Estense nel corso del Cinquecento di artisti provenienti da Fiandre e Paesi Bassi, la cui arte fatta di una forte cultura per i dettagli minuti viene qui combinata al colorismo veneto e alla tornitura plastica delle figure tipiche dell’arte dell’Italia centro settentrionale di quegli anni.
La piccola tavola viene attribuita al Garofalo nell’inventario Borghese del 1693 e viene poi successivamente attribuita, nel documento del 1790 e nell’elenco fidecommissario del 1833, alla scuola di Michelangelo. Queste osservazioni, sebbene eccessive e ricondotte a partire da Venturi ad una più corretta collocazione geografico-stilistica poi rivista da Longhi (1928) in un anonimo copista secentesco, sembrano essere giustificabili se si inserisce quest’opera nella produzione del Tisi e della sua bottega del quinto decennio del Cinquecento, quando il pittore si avvicinò molto al modus pittorico vasariano fortemente influenzato dall’operato michelangiolesco (Pattanaro 1995).
Lara Scanu