Il dipinto è replica di un prototipo di Taddeo Zuccari. L'attribuzione a Federico trova conferma nella citazione del dipinto nell’inventario della Collezione dei primi decenni del Seicento. L'iconografia dell’Imago pietatis è legata alla devozione nel Cinquecento a Roma, grazie anche alla Compagnia di Gesù, alla quale era peraltro legata la famiglia Zuccari. Il Cristo è sorretto alle spalle da un angelo mentre altri quattro angeli vegliano il corpo con le fiaccole accese. Il soggetto sembra riflettere la diffusione del culto degli arcangeli, a Roma soprattutto dal settimo decennio del secolo XVI.
Collezione del cardinale Scipione Borghese (ante 1622; Della Pergola 1959, pp. 140-141); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, A, n. 19. Acquisto dello Stato, 1902.
La traslazione del corpo di Cristo al calvario e l’iconografia dell’imago pietatis furono temi cari alla cultura devozionale controriformata alla quale partecipavano spiritualmente i fratelli Zuccari, Taddeo e Federico.
Questa versione del Cristo morto fra gli angeli costituisce una fedele riproduzione derivata da un soggetto già sperimentato dal fratello Taddeo. Questi infatti stava realizzando, prima della sua morte nel 1566, una tavola, della quale si persero le tracce alla fine del XIX secolo e riemersa nei primi anni ‘2000, con una scena analoga, iconografia riproposta poi in varie versioni, tra cui una nella Galleria Nazionale delle Marche e quella ad affresco nella cappella di palazzo Farnese a Caprarola. Dopo la morte di Taddeo, Federico divenne capomastro del cantiere farnesiano con il compito di ultimare i lavori già in corso d’opera, tra cui si annoverava il suddetto affresco. Il prototipo è descritto da Vasari, nella vita di Taddeo, come “un bellissimo Cristo in un quadro, che doveva essere mandato a Caprarola”, poi passato intorno al 1760 in casa del marchese Vitelleschi (Herrmann-Fiore, pp. 15, 18-20).
In realtà i problemi riguardo la paternità di tali opere dallo stesso soggetto sembravano già risolti all’inizio del Seicento, quando una nota inventariale riconosceva nel quadro Borghese “un […] Christo morto con cinque Angeli con quattro torce, alto 10 largo 6 ¾ cornice negra profilata d’oro” attribuendolo a Federico Zuccari (Inv. ante 1633, n. 122). Ma pochi anni più tardi Giacomo Manilli riguardo alla stessa tela scrive: “quadro grande sopra questo, d’una pietà, con quattro angeli in piedi, con torce in mano, è di Taddeo Zuccaro” (Manilli 1650, p. 85). L’erronea attribuzione a Taddeo da parte di Manilli venne poi tramandata dalle fonti: in Villa Borghese, pubblicato nel 1700 da Domenico Montelatici, si legge “(tela) rappresentante Christo morto nelle braccia della Maria Vergine in piedi, con torce accese nelle mani, è di Taddeo Zuccari” (Montelatici 1700, p. 216). Il quadro a quell’epoca si trovava nella “sala del Moro” così nominata dalla statua di giovane “grande al naturale, scolpito in pietra di Paragone, con veste ricchissima di alabastro fiorito” (ivi, p. 212). Burckhardt, in controtendenza, nel Cicerone del 1855 assegna la tela Borghese a Federico. Sempre nell’Ottocento venne pagato un restauratore, Achille Merola, per il restauro di alcuni dipinti tra cui “La Deposizione della Croce di Federico Zuccari (cioè il Cristo morto di Taddeo)” (Hermann-Fiore, p. 22) dimostrando così la conoscenza della doppia natura della tela derivata da un’invenzione iconografica di Taddeo ma realizzata dalla mano di Federico.
Dopo Venturi e Longhi anche Paola della Pergola assegna la tela a Taddeo, pensando si trattasse di uno di quei dipinti “levati dalle chiese” che giunsero in dono a Scipione Borghese tra il 1608 e il 1619, essendo certamente in collezione già nel 1622. Di quell’anno infatti è un pagamento ad Annibale Durante “per havere dato di nero a olio una Cornice dove è il Christo del Zuccaro con il golanino d’oro a mordente, m.ta sc. 5” (Della Pergola 1959, pp. 140-141).
Grazie al contributo di Herrmann-Fiore, oggi si tende a considerare la tela in collezione Borghese come una versione da attribuire completamente alla mano di Federico. I caratteri stilistici di quest’ultima distinti da un timbro morbido e atmosferico, tipici della pittura di Federico, lontano dall’intonazione coloristica forte, dalle cromie accese e cangianti espresse dal fratello, confermano tale ipotesi.
Per l’impostazione dell’immagine sono evidenti i rimandi classici alla Deposizione Baglioni di Raffaello; qui il corpo di Cristo, abbandonato, viene sorretto da un angelo mentre altri quattro vegliano con alte fiaccole accese. Tale iconografia ebbe un discreto successo ravvisabile nei numerosi rimandi successivi, da Raffaelino da Reggio, che vi si ispirò per realizzare un magnifico disegno di angelo portatorcia, fino a Otto van Veen.
Gabriele de Melis