L'opera è curiosamente segnalata nell'inventario del 1700 come di Pietro Giulianello, che in realtà ne era il primo proprietario. Nonostante il dipinto sia riconosciuto opera di bottega, la composizione è quasi certamente da riferire al Maestro, come documenta un disegno ritenuto autografo conservato presso il Museo del Louvre. Il soggetto è ripreso dalle Sacre Scritture (Giovanni 4, 6-10), e rappresenta Gesù che, stanco dal viaggio verso la Galilea, chiese a una Samaritana, notoriamente avversa a un giudeo, di offrirgli da bere l’acqua del pozzo di Giacobbe.
Collezione Borghese, Inv. 1693, Stanza III, n. 148; Inventario 1700, Stanza III, n. 21; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 23, n. 19. Acquisto dello Stato, 1902.
In esposizione temporanea alla Galleria Nazionale d'Arte Antica per la mostra "Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini"
Negli inventari della collezione Borghese in cui è presente il dipinto si trova l’attribuzione al misterioso Pietro Giulianello, personaggio citato in ben due indicazioni documentarie della collezione Borghese (inv. 244) e ancora dai contorni poco chiari, ma nel quale probabilmente non è da identificare il pittore, bensì il proprietario originario dell’opera o l’intermediario per l’acquisizione. L’attribuzione al fantomatico maestro venne ripresa dalla prima letteratura (Platner 1842), per poi essere correttamente riportato alla mano del Garofalo o della sua scuola verso la fine del XIX secolo (Venturi 1893). Nel catalogo della Galleria (Della Pergola 1955) è stata per la prima volta tracciata la storia dell’equivoco attribuzionistico, facendone emergere anche la ripetitività nei documenti.
Lo schema narrativo qui presentato è stato più volte utilizzato dal Garofalo e dalla sua scuola nella raffigurazione del tema tratto dal Vangelo di Giovanni (4, 13-15): Cristo è seduto sul pozzo di Giacobbe mentre dialoga con una donna di Samaria, posta in piedi all’estremità sinistra della composizione con una grande anfora in mano, chiedendole da bere e promettendole un’acqua in grado di dissetarla per l’eternità. La scena si svolge entro un paesaggio raffigurante, secondo il racconto neotestamentario, la città di Sichem, luogo in cui la Samaritana giungerà per annunciare la venuta del nuovo Messia e dal quale gli apostoli, visibili a sinistra, stanno tornano con le provviste meravigliati alla vista del dialogo di Cristo con la donna. Ogni gesto ed ogni sguardo presente nella composizione, così come la componente luministica che rende particolarmente vividi i colori, conferiscono alla scena un tono molto intimo e psicologicamente approfondito, in cui lo spettatore entra in empatia con l’animo meravigliato e al contempo fiducioso della Samaritana. Questa dimensione di autenticità ed immediatezza nella resa della narrazione, anche attraverso il sapiente utilizzo della luce e dei colori, riflette una attenta osservazione della pittura dossesca (Fioravanti Baraldi 1993).
Sicuramente ripresa da un prototipo garofalesco da un seguace, l’opera in collezione Borghese è sicuramente legata alla produzione grafica del Tisi conservata al Louvre (Pouncey 1955) e potrebbe essere replica di un dipinto ricordato nella distrutta chiesa di San Silvestro a Ferrara (Scalabrini 1773, p. 225; Tarissi de Jacobis 2002).
Lara Scanu