La piccola tavola centinata, presente già nella collezione di Scipione Borghese, doveva costituire il pendant del Tributo della moneta, ora in Inghilterra. La zona superiore del dipinto è occupata da un paesaggio. In primo piano Cristo è raffigurato sulla soglia di un tempietto; ai suoi piedi alcuni personaggi si chinano a leggere quanto il Maestro, secondo il racconto del Vangelo (Gv 8, 1-11), aveva tracciato sul terreno. Una inclinazione anticlassica, comune nell’ambiente ferrarese, pervade il piccolo dipinto.
Collezione Borghese, citato in: Inventario 1630 ca., Stanza IV n. 23; Manilli 1650, p. 114, Stanza III (?); Inventario 1693, Stanza VII, n. 403; Inventario 1790, Gabinetto, n. 51; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 30, Stanza XII n. 93. Acquisto dello Stato, 1902.
L’episodio raffigurato è tratto dal celebre passo evangelico di Giovanni (8, 1-11), nel quale si narra di una adultera portata dinanzi a Gesù da scribi e Farisei al fine di conoscere il parere di Cristo in merito alla comminazione della condanna alla lapidazione ai danni della donna.
L’arrivo nella collezione Borghese del dipinto non è stato univocamente accertato: alcuni hanno ritenuto di riconoscere questa tavola come un quadro di provenienza Aldobrandini (Della Pergola 1955), informazione successivamente corretta (V. Romani in Ballarin 1994-1994; Coliva 1994) in seguito all’individuazione dell’opera presente in prima battuta nell’inventario di Olimpia senior con l’omologa composizione oggi alla National Gallery di Londra (inv. 641). Il primo dato documentario sul dipinto di Mazzolino in analisi è probabilmente da ricondurre al «quadro in […] quando il Signor assolve l’adultera, et molte altre figure, che doi in ginocchione cornice negra a frontespitio tocca d’oro, alto 1 ¼.» (Corradini 1998). Come tutte le altre opere del pittore ferrarese in collezione Borghese, la tavola perse la corretta attribuzione nel corso dei secoli, ascritta dapprima a Dürer dal Manilli (1650) e in seguito a Perugino (1693; 1790, De Rinaldis 1937). Saranno poi il Piancastelli (1891), su suggerimento di Morelli, e Adolfo Venturi (1890) a riportare il dipinto alla giusta paternità.
Gli elementi di «schietto candore narrativo» (Della Pergola 1955), così come il completo assorbimento della lezione naturalistica dossesca, soprattutto in materia di paesaggio (Zamboni 1968), consentono di datare l’opera alla fine del terzo decennio del Cinquecento.
Sebbene in antico, come ampliamente dimostrato (V. Romani in Ballarin 1994-1995), non fossero accostate, è possibile ravvisare significative tangenze stilistiche e compositive con il Tributo della moneta, fino al 1624 in collezione Aldobrandini (Oxford, Christ Church Picture Gallery, inv. JBS 157). La struttura simmetrica, l’apertura paesaggistica della scena, dove padroneggia la rarefazione e l’evanescenza delle figure di fondo rispetto al solido affollamento del primo piano, la gestualità drammaticamente significativa anche grazie alla preziosità dei dettagli di abiti, gioielli e pettinature, consentono di datare il dipinto Borghese con più precisione intorno al 1527, anno a cui si avvicinano anche la Lavanda dei piedi (Philadelphia, John G. Johnson Collection, inv. 248) e la Resurrezione di Lazzaro (Milano, Pinacoteca di Brera, inv. 2139).
Lara Scanu