La tavola può forse essere riconosciuta con quella citata nell’inventario del sequestro del Cavalier d’Arpino del 1607. L’opera è una derivazione dalla celebre Flagellazione di Sebastiano del Piombo, eseguita a olio su muro nella cappella Borgherini in San Pietro in Montorio (1515-1524). Buona parte della critica ritiene sia opera di Marcello Venusti, pittore di stampo michelangiolesco che fu probabilmente in contatto diretto con Sebastiano, dato che arrivò a Roma diversi anni prima della morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1547.
Il dipinto è una derivazione dalla Flagellazione di Cristo di Sebastiano del Piombo nella cappella Borgherini in San Pietro in Montorio a Roma. La celebre opera, eseguita a olio su muro, fu commissionata al pittore dal banchiere Pierfrancesco Borgherini e realizzata tra il 1516 e il 1524. La critica ha indagato a lungo il ruolo di Michelangelo come inventore della Flagellazione, ruolo di cui alcuni indizi sono rintracciabili sia nelle fonti dell’epoca sia in un nucleo di disegni legati all’opera: due si trovano presso il British Museum di Londra (invv. 1895, 0915.813; 1895, 0915.500) con l’attribuzione al Buonarroti e un terzo, nella collezione reale di Windsor (inv. RL 0418), è stato riconosciuto come copia di Giulio Clovio da un disegno perduto del maestro. Quest’ultimo è il più fedele alla Flagellazione Borgherini, eccetto per la nudità dei personaggi che nell’opera finale appaiono invece coperti, e si ipotizza che possa aver costituito il modello principale per Sebastiano, fornitogli da Michelangelo stesso (Gnann 2010, pp. 176-179, n. 49).
Il trattamento del soggetto al di fuori del suo contesto narrativo, come immagine iconica e contemplativa, aveva già dei precedenti illustri ma nessuno lo aveva mai affrontato in chiave monumentale per un altare di pubblica fruizione (C. Barbieri, Visionaria e monumentale. Sebastiano, Michelangelo, e la cappella Borgherini in San Pietro in Montorio, in “Artibus et historiae, LXXIV, 2016, p. 79), aspetto che contribuì a garantire all’opera un’immediata e vasta risonanza. Essa si impose come fonte iconografica e termine di confronto per le successive interpretazioni del tema, compresa la celebre Flagellazione di Caravaggio conservata nel Museo di Capodimonte (M. Gregori in Caravaggio e il suo tempo, cat. mostra (Napoli, Museo di Capodimonte, 1985), a cura di G. Borsano, S. Cassani, n. 93).
La straordinaria fortuna dell’opera è testimoniata, oltre che dalla replica che lo stesso Sebastiano eseguì per la chiesa dell’Osservanza del Paradiso a Viterbo (oggi nel Museo Civico della città), dalle numerose riprese, copie fedeli o varianti, diffuse nell’ambito della pittura da cavalletto di destinazione privata.
È in questo contesto che si inserisce il dipinto Borghese, apparso in mostra in tempi recenti presso l’Albertina di Vienna (2010-2011) in un interessante confronto con il disegno di Windsor (Gnann, cit.).
L’assegnazione dell’opera a Marcello Venusti, avanzata per la prima volta da Adolfo Venturi (1893, p. 98) è sostenuta anche in tempi recenti da molti studiosi (Bernardini 1908, p. 42; D’Achiardi 1908, pp. 167-168; De Rinaldis 1939, p. 25, Dussler 1942, p. 121; Capelli 2003, pp. 241-248, che riporta anche il parere orale favorevole di Claudio Strinati; Gnann, cit., n. 50). Meno seguita è invece l’opinione di Paola Della Pergola, la quale ritiene il dipinto vicino ai modi di Taddeo Zuccari (Della Pergola 1959, pp. 136-137, n. 188).
Nel contesto dell’attribuzione a Venusti, l’opera potrebbe plausibilmente derivare sia in maniera diretta dall’originale (come sostenuto da Gnann, cit., p. 177), sia dal disegno noto attraverso la copia di Windsor, che nel 1547 passò nelle mani di Tommaso de’ Cavalieri; quest’ultimo intratteneva stretti rapporti con Venusti, permettendogli anche, come riportato dal Vasari, di dipingere sulla base dei disegni michelangioleschi in suo possesso, e potrebbe addirittura aver richiesto lui stesso al pittore una copia dipinta di questo soggetto. Tra le versioni note che nel tempo sono state riferite a Venusti, alcune oggi espunte dal suo catalogo, la copia Borghese è una delle migliori dal punto di vista qualitativo e in essa sono stati individuati degli aspetti tipici della produzione matura dell’artista, in particolare la resa luministica, basata su un accurato studio dei contrasti luce-ombra, che tende a dare drammaticità alla scena. Se si accolgono tali considerazioni, l’opera può essere ricondotta agli anni Sessanta-Settanta del Cinquecento (Capelli, cit., pp. 242-243).
Riguardo alla sua storia collezionistica, si pensa che il dipinto possa provenire dal sequestro dei beni eseguito per volere di Paolo V ai danni del Cavalier D’Arpino (Giuseppe Cesari) nel 1607, a seguito del quale i quadri del pittore finirono nelle mani del cardinale Scipione Borghese.
Della Pergola (cit.) lo ha riconosciuto nell’inventario delle opere d’arte confiscate, alla voce “Un Christo nudo tra ladroni non perfetto alla colonna senza cornice”, identificazione che tuttavia ha sollevato delle perplessità per la mancanza di un riferimento al celebre originale, troppo noto per non essere messo in relazione al dipinto (Capelli, cit., p. 242), tanto più che l’estensore nomina la chiesa di San Pietro in Montorio in altri punti dell’elenco.
Un ulteriore riferimento, anch’esso privo del rimando all’originale, è stato individuato nel quadro descritto da Montelatici (1700, p. 216) nella camera cosiddetta “del Moro” della villa pinciana, attribuito al Cesari: “Il Salvatore legato alla colonna, e battuto da Soldati, si giudica del Cavalier Gioseppe d’Arpino”.
Con maggior precisione il dipinto compare invece nell’inventario fidecommissario del 1833 come “La Flagellazione alla Colonna, di Sebastiano Del Piombo, col disegno di Michelangelo, largo palmi 1, oncie 9; alto palmi 2, oncie 7, in tavola”, descrizione in cui sono riportati correttamente sia le dimensioni che il supporto. A differenza delle altre citazioni sopra riportate, questi dati permettono di distinguere chiaramente il quadro dall’altra copia dalla Flagellazione Borgherini presente in collezione (inv. 410), in tela e di dimensioni assai maggiori, descritta anch’essa nell’inventario fidecommissario.
Stilisticamente, Kristina Herrmann Fiore (2000, pp. 64, 197, n. 21) rileva una netta differenza qualitativa tra la figura centrale del Cristo e quelle dei quattro carnefici che lo circondano, definendo la resa di questi ultimi piuttosto scolastica. Al contrario, gli elementi architettonici delle colonne sono resi finemente, con attenzione alle venature del marmo e ai dettagli dei capitelli. La studiosa ritiene quindi che l’opera sia il prodotto di una collaborazione ma non individua nessuno degli autori.
Come nell’originale, anche nel dipinto Borghese la luce colpisce direttamente il corpo seminudo di Cristo, dando centralità alla sua figura e mettendone in risalto la resa anatomica, mentre il viso rimane in ombra, espediente che accentua la carica drammatica della scena.
Pier Ludovico Puddu