Confuso in passato con l'altra copia della celebre Flagellazione di Sebastiano del Piombo presente tuttora in Galleria (inv. 133), questo dipinto è stato variamente avvicinato dagli studiosi alla cerchia dei manieristi emiliani e in particolare al pittore fiammingo Denis Calvaert, nome che a fatica mette d'accordo tutta la critica. Raffigura Cristo, percosso da alcuni carnefici, ritratto seminudo ad una colonna mentre un bambino, in silenzio, sulla destra, assiste alla sua fustigazione.
Roma, collezione Borghese, 1833 (Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 40; Della Pergola 1959). Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questo dipinto è ignota. Infatti, a differenza dell'altra copia della Flagellazione del Luciani forse proveniente dalla collezione del Cavalier d'Arpino (Galleria Borghese, inv. 133), questa tela è documentata solo a partire dal 1833, elencata nel relativo Fidecommisso di casa Borghese come opera di Taddeo Zuccari (Inv. Fid. 1833). Tale nome, ripetuto nelle schede di Giovanni Piancastelli (1891), fu rivisto nel 1893 da Adolfo Venturi che, forse confusosi con l'altra versione, parlò di Giuseppe Cesari (A. Venturi 1893).
Il primo a formulare un'ipotesi in direzione del pittore Denis Calvaert fu Giulio Cantalamessa (Id. 1912), pista ben presto seguita da Lionello Venturi (1909), Simone Bergmans (Id. 1928; 1931; 1934) Leo van Puyvelde (Id. 1950) e, di recente, da Kristina Herrmann Fiore (Eid. 2006). Purtroppo, però, la sua chiara derivazione dal Cristo flagellato eseguito da Sebastiano del Piombo per la cappella di Pierfrancesco Borgherini a San Pietro in Montorio a Roma, impedisce, in assenza di precisi documenti, di assegnare con assoluta certezza questa tela al maestro fiammingo, dubbio in effetti già espresso da Roberto Longhi (1928) e da Paola della Pergola (1959) che giustamente facevano fatica a riconoscere nell'ennesima variante la mano del pittore. Tale difficoltà è senz'altro legata, come già detto, alla fortuna riscossa dal prototipo sebastianesco, replicato dallo stesso Luciani che ne eseguì una versione per la chiesa viterbese dell'Osservanza (Viterbo, Museo Civico), dal quale discendono numerose copie realizzate a più riprese per scopi perlopiù devozionali (cfr. a tal proposito Lucco 1980). Tra l'altro se si confronta la Flagellazione Borghese con quella proveniente dalla chiesa bolognese di San Leonardo alle Carceri, realizzata dal Calvaert intorno al 1580-85 (Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. 488), diversa risulta la resa del volto di Cristo che appare terso e smaltato nella tela romana, corrugato e solcato da una profonda linea in quella felsinea, così come differenti appaiono il gioco prospettico e il disegno delle colonne qui rese con un'attenzione meticolosa alle venature del marmo. Non persuadono, inoltre, per le stesse ragioni che ad oggi fanno sorgere dei dubbi sull'autografia del fiammingo, neanche gli altri nomi avanzati negli anni dagli studiosi, tra i quali emergono quelli di Taddeo Zuccari, di Orazio Sammacchini e di Tiburzio Passerotti (Della Pergola 1959; Cantalamessa 1907; Longhi 1928).
È ben probabile, invece, come suggerito da Paola delle Pergola (Eid. 1959) che il dipinto sia stato realizzato non oltre il 1530-40 che, a differenza dell'altra versione Borghese e della pittura di San Pietro in Montorio, presenta il corpo di Cristo rivolto verso sinistra mentre i suoi carnefici, tutti vestiti, sono assistiti da due uomini ritratti in lontananza e da un bambino nascosto all'estrema destra, ritratto in una quinta architettonica vasta e profonda. È quest'ultimo che probabilmente dovette spingere Giulio Cantalamessa a cercare il nome di un artista di ambito emiliano poiché la sua figura, in particolare quel ricciolo che insiste sulla fronte, ricorda da vicino i tipi fisionomici del Correggio e del Parmigianino, sebbene sia stata condotta con uno spirito ormai lontano da quello dei due maestri. Tuttavia, come nella cappella Borgherini, anche qui la luce gioca un ruolo cruciale, enfatizzando la plasticità e la centralità del corpo di Gesù il cui viso, ritratto appositamente di profilo, conferisce maggior enfasi e pathos al dramma inscenato.
Antonio Iommelli