Non è noto come questo dipinto sia entrato nella collezione, dove peraltro è già citato nell’inventario del cardinal Scipione, databile intorno al 1633. L’opera appartiene alla fase ultima del percorso stilistico di Tiziano, caratterizzata da un’alta drammaticità espressiva, resa ancora più intensa, oltre che dai toni scuri e dall’estrema frantumazione delle pennellate, dal taglio stesso della composizione, ridotta a pochi elementi essenziali. L’immaginario raggio luminoso che investe il corpo martoriato del Cristo conduce lo sguardo lungo una diagonale culminante nel volto emergente dalla penombra, nei cui tratti è possibile leggere l’espressione di terribile denuncia e profonda umanità.
Cornice ottocentesca, fregio con foglie
113,5 x 88,5 x 13 cm
Restauro 2002 (Paola Mastropasqua)
(?) collezione Lucrezia d’Este (Della Pergola 1955); (?), Roma, cardinale Paolo Emilio Sfondrato, 1608 (Herrmann Fiore 2007); Roma, cardinale Scipione Borghese, 1633 ca. (Inventario ante 1633, Corradini 1998, p. 450); Inv. 1693, Stanza IV, n. 5; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 37; Piancastelli, ms, 1891, p. 470. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto è citato per la prima volta nella collezione Borghese in un inventario databile al 1633 (Corradini, 1998, p. 450). Faceva dunque parte del nucleo di opere di proprietà di Scipione, ma non sono note le vicende della sua acquisizione: non hanno trovato conferma le ipotesi di provenienza dall’eredità di Lucrezia d’Este o dalla raccolta di Paolo Emilio Sfondrato (1608). Non è certo comunque improbabile che, entro un contesto culturale primoseicentesco, che vede la grande fortuna goduta a Roma dai dipinti di Tiziano presenti nelle più importanti collezioni principesche cittadine (i Baccanali avanti tutti) - sia stato proprio il mercato romano a portare anche quest’opera nella villa fuori porta Pinciana, dove dovette rimanere per buona parte del Seicento: qui la ricordano appunto l’inventario del 1633 circa (“quarta stanza verso l’Offitii”, attuale sala 1 – piano inferiore), e poi Manilli (1650) (sala di Diogene, attuale sala 15 – piano superiore).
Nel 1693 la tela risulta già nel palazzo di città, dove era stata spostata insieme alla maggior parte dei dipinti della collezione per formare la quadreria visitata e ammirata per tutto il Settecento. Vi si trova ancora nel 1833, quando è registrata nell’inventario fidecommissario come “autore incognito”. Nella villa lo vede Venturi (1893), che ne conferma la paternità a Tiziano, diversamente ribadita dalla critica successiva, rifiutata (Wethey, tra gli altri) o più spesso non affrontata. Al di là delle questioni attributive, nel corso del tempo è stata avanzata anche l’ipotesi che il dipinto sia uno studio per una composizione più ampia (De Rinaldis), e che la tela sia stata rifilata in un momento imprecisato della sua storia (Herrmann Fiore, 2007, pp. 385-386).
Venturi è il primo ad accennare allo stato di conservazione della tela, che si presentava allora con “ritocchi e guasti, come si rileva a tutta prima dalla crosta che copre il petto a destra come di una gran macchia nerastra” (p. 120). Commentando a margine questo testo, l’allora direttore del Museo Giulio Cantalamessa a distanza di pochi anni (1907) confermava, oltre alla qualità della modellatura, la presenza di quella “macchia nerastra”, aggiungendo come essa stesse “a sostituire una crosta staccata della mestica originale”, ma che in fondo il dipinto non era mal conservato. I vecchi restauri e ritocchi venivano eliminati di lì a poco da un intervento di Francesco Cochetti (1917) sotto la supervisione di Cantalamessa, seguito da una revisione conservativa nel 1937 e da una pulitura più recente (2002) che ha rimosso in particolare le vernici ossidate, restituendo migliore leggibilità alla trama pittorica del dipinto. Realizzato su tela a spina di pesce, è caratterizzato da una preparazione molto sottile e di colore rosso spesso lasciata a vista per restituire, insieme con una stesura del colore con pennellate veloci e corpose, quell’effetto di “non finito”, così peculiare della produzione tarda di Tiziano alla quale unanimemente viene ascritto dalla critica.
Proprio negli ultimi decenni dell’attività del pittore, per soddisfare le esigenze di una committenza sempre più vasta, la bottega moltiplica la produzione di dipinti evidentemente di larga richiesta. Tra questi si collocano senz’altro i quadri di devozione: la serie delle Maddalene e delle Addolorate (significativamente, in replica, anche in collezione Borghese), o quella del Cristo di passione, nelle diverse declinazioni dell’Ecce Homo o, appunto del Cristo alla colonna, talmente famoso da esistere in svariate versioni nelle collezioni italiane cinque-seicentesche. Una tale fortuna troverebbe ulteriore conferma in una stampa raffigurante una più ampia scena della Flagellazione siglata nel 1568 da Martino Rota, incisore di origini dalmate che a Venezia sembra collaborare con la bottega di Tiziano nella realizzazione di stampe di traduzione delle più fortunate creazioni del maestro. Proprio nella parte del mezzobusto del Cristo, l’incisione presenta in controparte una certa assonanza, tanto da farne ipotizzare una derivazione in scala ridotta, con il dipinto Borghese, forse l’unico giunto fino a noi di una produzione ampia e ben documentata dalle fonti (Herrmann Fiore, 2007, pp. 385-386).
Al di là di una tale ipotesi, Tiziano dovette per certo ripensare la sua composizione, intervenendo su una tela già utilizzata e mutando una prima idea, attestata dalle indagini radiografiche – effettuate in occasione dell’ultimo restauro (2002) e confermate più di recente (2021) – dalle quali emerge, al di sotto dell’attuale strato pittorico e all’altezza dell’addome del Cristo, un viso virile capovolto: non un generico uomo barbuto ma, per la peculiare inclinazione del capo, a tutta evidenza un Cristo portacroce, e del tipo derivato dall’allora ben noto modello della Scuola di San Rocco, ma in controparte.
Non è possibile verificare se quel volto, poi ricoperto, sia stato eseguito da altra mano all’interno della bottega. Sembra invece assai probabile che per la privata devozione di un ignoto committente si lavorò fin dall’inizio per realizzare un Cristo di passione, sul quale il maestro decise di intervenire in un momento avanzato dell’opera, distruggendo e rifacendo.
Tiziano seppe, come sempre, attingere alla tradizione e rielaborare le sue stesse matrici dando vita a una nuova, straordinaria invenzione che così da vicino, significativamente, richiama la possanza del Torso del Belvedere, per dare eroicità a questo Cristo uomo, violato dai ben visibili segni del flagello ma deciso a non umiliarsi, forte nel fisico e terribile in quel volgere della testa, e dello sguardo, verso l’alto, in aperta sfida con i suoi carnefici e forse con il suo stesso destino: ancora un episodio di denuncia, chiaro e forte, del vecchio Tiziano, che riflette sulla vita e sulla sua indomita umanità.
Maria Giovanna Sarti