Firmato e datato sul retro, il dipinto è stato al centro di un lungo dibattito attributivo sia per l'autenticità della firma, ritenuta dubbia e del tutto inconsueta per il Solario, sia per la presenza sul verso della tavola di un'etichetta ottocentesca che lo assegnava a Giovanni Bellini.
Raffigura Cristo, con indosso la tunica scarlatta e la corona di spine, mentre trascina una pesante croce sulla spalla, qui ritratto in compagnia di Simone il Cireneo e di un irriverente carnefice la cui fisionomia tradisce i rapporti del pittore con la cultura nordica, appresa con buona probabilità in Francia dove il Solario fu chiamato nel 1507 dal cardinale George d'Amboise.
Salvator Rosa (cm 76 x 67 x 5,5)
(?) Roma, collezione Giuseppe Cesari detto il Cavalier d'Arpino, 1607 (K. Herrmann Fiore in Caravaggio 2000); (?) Roma collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693. Stanza "verso il Giardino", n. 412; K. Herrmann Fiore in Il Cinquecento lombardo 2000); Roma, collezione Borghese, 1833 (Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 19; Della Pergola 1955). Acquisto dello Stato, 1902.
Sul retro della tavola: "ANDREA DE SOLARIO PIN(S)IT 1511"
La provenienza di questo dipinto, attestato con certezza in collezione Borghese a partire dal Fidecommisso del 1833, rimane dubbia. Nonostante, infatti, il tentativo di Kristina Herrmann Fiore di riconoscerlo con un quadro elencato sommariamente nel 1607 tra i beni sequestrati al Cavalier d'Arpino ("Un altro quadro di un Salvatore con la croce"; K. Herrmann Fiore in Caravaggio 2000), l'assenza di dati certi come le misure, la tipologia del supporto, nonché del nome del suo autore, spinge ad adottare tale ipotesi con molta cautela sebbene le motivazioni addotte dalla studiosa, che individuerebbero echi dell'opera incamerata in dipinti eseguiti dal Cesari (Cristo deriso, Roma, chiesa San Carlo ai Catinari) e da un giovanissimo Caravaggio (Bacchino malato, inv. 534), rimangano alquanto credibili.
Una descrizione molto più sicura sembra essere invece quella riportata nell'inventario Borghese del 1693, in cui l'estensore del documento segnala "un quadro di tre palmi in tavola con un Salvatore con la croce in braccio del n. 492 con cornice indorata del Bordenone" (Inv. 1693). In tal caso, infatti, le dimensioni, così come il supporto registrato, combaciano alla perfezione con la composizione in esame (K. Herrmann Fiore in Il Cinquecento lombardo 2000), ad eccezione però dell'autore - il Bordenone, alias Giovanni Antonio de' Sacchis - che però non appare così distante da quello dell'altro artista suggerito da un'etichetta antica leggibile sul retro della tavola: "GIO. BELLIN", ossia Giovanni Bellini.
Se diversi dubbi, dunque, persistono tuttora sulla provenienza del quadro, facendo di conseguenza oscillare la sua data di ingresso nella raccolta Borghese, sicura invece sembra essere la sua paternità, riconosciuto a partire dal 1869 come opera di Andrea Solario (Mündler 1869) e come tale accettato con qualche riserva (A. Venturi 1893; Rusconi 1906; Morelli 1890) o senz'alcun dubbio dalla critica (Crowe-Cavalcaselle 1871; Bode 1898; Berenson 1907; De Schlegel 1913; Suida 1920; Longhi 1928; De Rinaldis 1948; Della Pergola 1955; Cogliati Arano 1965; Brown 1987; K. Herrmann Fiore in Caravaggio 2000; Eid. Il Cinquecento lombardo 2000; Stefani 2000; Herrmann Fiore 2006). Non è di certo mancato chi però negli anni ha avuto qualche tentennamento, come William Bode o Giovanni Morelli, che su questo argomento vi tornarono svariate volte parlando dapprima di copia da originale perduto (Morelli 1874; Bode 1879) e convincendosi poco dopo del contrario (Morelli 1880; Bode 1898); e chi invece, rimanendo fermo nelle proprie convinzioni, licenziò il quadro come copia fiamminga di un originale perduto (Meder 1913, Badt 1914; Bercken 1927). Ad alimentare questi sospetti uno studio preparatorio conservato all'Albertina di Vienna (Graphische Sammlung, inv. 18817; Meder 1913) e la presenza di un'iscrizione sul verso della tavola "ANDREA DE SOLARIO PI(N)SIT 1511", da alcuni ritenuta autografa (Longhi 1928; De Rinaldis 1948; Cogliati Arano 1965; Berenson 1968), da altri non concorde con il fare del pittore che solitamente usava firmarsi con la formula "ANDREAS FACIEBAT" (Della Pergola 1955; Brown 1987; Beguin 1999; Stefani 2000). Secondo Kristina Herrmann Fiore (Eid. in Il Cinquecento lombardo 2000) rappresenterebbe una spia per meglio datare la composizione: nella peggiore delle ipotesi, infatti, se non autografa, si tratterebbe di una scritta coeva alla realizzazione del quadro, eseguito a detta della studiosa tra il 1510 e il 1514, ossia poco dopo il ritorno del pittore dalla Francia - come suggerirebbero alcune analogie con la Salomè di Vienna (Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. 898) - e prima della sua esperienza romana. Per Brown (Id. 1987), invece, che ritiene la scritta non contemporanea, il Cristo Borghese appare come una delle opere più tarde del pittore milanese, vicino per ariosità e forma monumentale al Cristo benedicente del Metropolitan Museum (New York, inv. 22.16.12) o agli Apostoli dell'Assunzione della Certosa di Pavia, lasciata incompiuta nel 1524, anno della sua morte.
Per quanto concerne il soggetto, ancora Brown (1992) ha individuato il momento preciso raffigurato dal Solario, ossia quando Gesù, diretto al Golgota, esclamò "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16, 24). Tale composizione, in effetti, sembra risentire di quel misticismo molto diffuso all'epoca, quando testi come il De imitatione Christi e la Meditazione de la Passione de Christo ebbero un certo successo, spingendo gli artisti a rielaborarne i contenuti (Brown 1987). Come invece rilevato da Kristina Herrmann Fiore, è ben possibile che alla base di questa composizione vi sia un'eco di un disegno di Leonardo da Vinci (Venezia, Gallerie dell'Accademia, inv. 231; Eid. in Il Cinquecento lombardo 2000) percepibile nel foglio del Solario conservato a Vienna, dove però quest'ultimo dimostra una certa autonomia allontanandosi di fatto sia dalla composizione di Leonardo, sia dalla propria idea che di fatto risulta distante dalla tavola Borghese, eseguita evidentemente diversi anni dopo. È anche vero che la fortuna di tale soggetto, largamente ricercato dai fedeli per la sua carica devozionale, abbia in qualche modo costretto il pittore a rimettervi mano, come testimonia la presenza di diverse redazioni autografe, tra le quali emergono quella della Seward Johnson Collection (Princeton, New Jersey; 1505) e del Musée des Beaux Artes di Nantes (inv. 160), realizzate rispettivamente prima e forse poco dopo la versione Borghese (su quest'ultima ipotesi cfr. K. Herrmann Fiore in Il Cinquecento lombardo 2000).
Antonio Iommelli