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Danae

Allegri Antonio detto Correggio

(Correggio 1489 ca - 1534)

Il dipinto - insieme alla Leda, il Ratto di Ganimede e Giove e Io - fa parte di una nota serie di quattro tele dedicata agli amori di Giove, realizzata dal Correggio per il duca di Mantova Federico II Gonzaga e da questi donata a Carlo V, forse a Bologna nel 1530 o più verosimilmente nel novembre del 1532, anno in cui il sovrano soggiornò nel capoluogo mantovano. Raffigura l'istante in cui Danae, figlia del re Acrisio, rinchiusa in una torre per evitare di generare dei figli, si congiunge a Giove, quest'ultimo trasformatosi secondo il mito ovideo in una pioggia d'oro. Da tale unione nacque Perseo che, come predetto da un oracolo, uccise il sovrano argivo.

La composizione, una dei rari esempi del pittore in cui la scena è ambientata in un interno domestico, è arricchita dalla presenza di Imeneo, protettore delle nozze, e di due amorini che testano su una pietra di paragone la bontà dell’oro, gesto che allude all'amore genuino di Giove per la principessa qui giudicato puro e inestimabile.


Scheda tecnica

Inventario
125
Posizione
Datazione
1530-31
Tipologia
Periodo
Materia / Tecnica
olio su tela
Misure
cm 158x189
Cornice

Cornice settecentesca decorata con festoni di frutta (cm 188,5 x 220,5 x 9)

Provenienza

Mantova, Federico II Gonzaga, 1530-31; Madrid, presso Carlo V, 1530/32 (Gould 1976); (?) Madrid, collezione Antonio Pérez, 1585 (Delaforce 1982); Milano, Leone Leoni, 1584 (Lomazzo 1584); Praga, collezione Rodolfo II, 1601 (cfr. da ultimo Rudolf 2002); Praga, collezioni imperiali, 1621 (Zimmermann 1905); Stoccolma, 1652; Roma, collezione Cristina di Svezia, 1673 (Silos 1673); Roma, collezione Decio Azzolini, 1689; Roma, collezione Livio Odescalchi, 1696; Roma, collezione Baldassarre Erba Odescalchi, fino al 1721; Francia, acquisto di Pierre Crozat, 1721; collezione Filippo II d'Orleans, dal 1727 al 1780 (Gould 1976; Staccioli 1991); Londra, duca di Bridgewater, 1816; Londra, Henry Hope, 1823; Parigi, presso antiquario Bonnemaison, 1823-27; Parigi, poi Roma, acquisto di Camillo Borghese, 1827; Inventario Fidecommissario Borghese 1833 (Inventario Fid. p. 13, n. 42). Acquisto dello Stato, 1902.

Mostre
  • 1997 Torino, Palazzina di Stupinigi;
  • 1998-99 Madrid, Museo Nacional del Prado;
  • 2000 Napoli, Museo di Capodimonte;
  • 2003 Parma-Vienna, Galleria Nazionale, Kunsthistorisches Museum;
  • 2003-04 Roma, Palazzo Ruspoli;
  • 2008 Roma, Galleria Borghese;
  • 2008 San Pietroburgo, Ermitage Museum;
  • 2008-09 Parma, Galleria Nazionale;
  • 2015 Milano, Palazzo Reale;
  • 2016 Roma, Scuderie del Quirinale;
  • 2018-19 Los Angeles, Getty Center;
  • 2019-20 Mantova, Palazzo Te.
Conservazione e Diagnostica
  • 1827 Pietro Camuccini;
  • 1915-19 Tito Venturini Papari;
  • 1933-34 Tito Venturini Papari;
  • 1978 Ludovico Mucchi (indagini radiografiche)
  • 1979 Gianluigi Colalucci (foderatura e applicazione nuovo telaio);
  • 1987 Laboratorio ENEA (indagini diagnostiche);
  • 1997 (restauro della cornice).

Scheda

Secondo Giorgio Vasari (1550; Id. 1568), che forse ne aveva sentito parlare da Giulio Romano di stanza a Mantova, questa tela fu commissionata ad Antonio Allegri dal duca Federico II Gonzaga e da questi donata all'imperatore Carlo V, cui il mantovano dovette essergli oltremodo riconoscente in seguito alla sua nomina a duca avvenuta nel 1530. Lo scrittore, infatti, riferì nelle Vite che l'artista "[...] fece in Mantova due quadri per il duca Federico II, che sono mandati all'imperatore" (Vasari, cit.), ossia una 'Leda e una Venere' (sic), intendendo senz'alcun dubbio con quest'ultima opera la presente Danae come conferma, tra le altre cose, il particolare inconfondibile dei due amorini a cui accenna l'aretino - "[...] che de le saette facevano prova su una pietra" (Vasari, cit.) - visibile nella composizione in basso a destra.

L'opera, eseguita nel 1530-31, faceva parte di una serie di quattro dipinti raffiguranti gli amori di Giove (Giove e Io, Vienna, Kunsthistorisches Museum, inv. GG274; Ganimede e l’aquila, Vienna, Kunsthistorisches Museum, inv. GG276; e Leda e il cigno, Berlino, Gemäldegalerie, inv. 218), un raffinatissimo e colto omaggio in cui si alludeva, tramite la figura del padre degli dèi, all’imperatore stesso, il cui emblema - un'aquila - coincideva con l'attributo divino. Tuttavia, come suggerito da Verheyen (1966), è però ben possibile che il duca avesse commissionato l'intero ciclo per sé stesso - destinato forse alla Sala di Ovidio presso Palazzo Te di Mantova - e di averlo poi ceduto a Carlo V dopo che questi aveva visto e ottenuto le prime due tele - Giove e Io e Ganimede e l'aquila - consegnategli dal duca con la promessa di ricevere quanto prima le restanti favole (secondo Verheyen, il ciclo, eseguito per Isabella Boschetti amante di Federico II, sarebbe stato composto da molti più quadri, una deduzione ricavata dallo studioso da un carteggio intercorso nel 1534 tra Federico II e il governatore di Parma). Ad ogni modo, quale che sia l'ipotesi più giusta, è certo che il dipinto pervenne nelle mani di Carlo V, forse nel 1530 o più verosimilmente nel novembre del 1532 (Gould 1976), tornando per vie alterne nuovamente in Italia dove nel 1584 fu visto da Giovanni Paolo Lomazzo nella raccolta milanese dello scultore Leone Leoni (Lomazzo 1584). Al momento si ignorano le circostanze su come Pompeo, figlio di Leone, giunse in possesso della tela spedendola al padre in Lombardia, forse dal sovrano stesso oppure acquistata tramite Antonio Pérez, segretario di Ruy Gómez de Silva, principe di Eboli, che potrebbe a sua volta averla ottenuta da Filippo II, figlio di Carlo V (Delaforce 1982). Come si evince dalla pluralità dei pareri espressi su tale complicato aspetto, (Verheyen 1966; Quintavalle 1970, Gould 1976; Bacchi 1997; Fabiansky 2000; Hoeninger 2001), questo 'passaggio' rimane tuttora uno dei nodi cruciali su cui la critica continua ad interrogarsi, provando a spiegare la pressoché contemporanea presenza della Danae nella collezione Leoni a Milano (1584) e in quella Pérez a Madrid (1585), un dilemma di fatto risolvibile solo se si ipotizza la migrazione del quadro in un breve torno di anni dalla raccolta meneghina a quella madrilena oppure l'esistenza di una copia coeva.

In ogni caso, come dimostrato da uno studio alquanto recente (Rudolf 2002), nel 1601 la Danae Leoni, fu da questi venduta tramite l'ambasciatore Hans Khevenhüller a Rodolfo II di Praga, entrando a far parte delle collezioni imperiali dove è segnalata in un inventario nel 1621 (Zimmermann 1905, n. 894). Trasportata dalle truppe svedesi a Stoccolma al termine della Guerra dei Trent'anni (1648), giunse nelle mani di Cristina di Svezia e da questa portata a Roma nel 1655: nella sua raccolta, infatti, fu elogiata dall'erudito Giovanni Michele Silos di stanza nell'Urbe nel 1673 (Silos 1673, ed. 1979), finendo diversi anni dopo nelle mani del cardinale Decio Azzolini, a cui fu lasciata in dono dall'ex sovrana svedese nel 1689.

Passata per via ereditaria al nipote Pompeo Azzolini, l'opera fu venduta nel 1697 al principe Livio Odescalchi approdando, tramite il marchese Baldassarre Erba Odescalchi, dapprima in casa di Pierre Crozat e infine in quella di Filippo II duca d'Orleans (Gould, cit.). Finita nel 1780 nelle gore del mercato londinese insieme a gran parte della collezione del potente principe francese, fu qui goduta, tra il 1816 e il 1823, dal duca di Bridgewater e da Henry Hope e da quest'ultimo ceduta nel 1823 all'antiquario parigino Bonnemaison, da cui nel 1827 fu comprata dal principe Camillo Borghese per 285 sterline (Gould, cit.). Rientrata dunque in Italia con un'errata attribuzione - espediente escogitato da Evasio Gozzani per far passare il dipinto in sordina ed evitare così un'esosa tassa imposta dal governo pontificio (M. Minozzi in Correggio 2008 - la Danae sbarcò infine a Roma, varcando poco dopo l'ingresso di Palazzo Borghese a Campo Marzio da dove nel 1891 fu prelevata per essere trasferita nel casino di Porta Pinciana e qui lasciata insieme ad altri importanti capolavori in seguito alla vendita della villa allo Stato italiano avvenuta nel 1902. Come riassunto da Marina Minozzi (cit.), una volta nell'Urbe, i maggiori artisti e conoscitori del tempo furono catturati dalla sua bellezza, largamente apprezzata e celebrata dal grande pittore Vincenzo Camuccini che non ebbe alcuna difficoltà a riconoscere la mano dell'Allegri “[...] nella vaghezza delle masse del chiaroscuro, nella lucidezza e trasparenza del colore, nella fluidità, e dolcezza di dipingere i capelli” (Ivi).

Per quanto, invece, concerne il soggetto, è indubbio che Correggio riuscì a interpretare una delle immagini più care della pittura cinquecentesca emendandola da qualsiasi ammiccamento erotico. La sua Danae, infatti, allude con prudenza all'unione carnale cantata da Ovidio, sollevando delicatamente dall'addome un candido lenzuolo - simbolo del velo virginale - per accogliere il suo divino amante che, sottoforma di una nuvola d’oro, le bagna il ventre colmandola di monete. Ad assistere la principessa, un giovane ragazzo alato, dotato di una fulgida bellezza: si tratta di Imeneo, protettore delle nozze, qui ritratto mentre saggia nel palmo della mano le prime gocce di pioggia, gesto che non a caso occupa il centro della composizione, obbligando pertanto l'osservatore a spostare il proprio sguardo verso il grembo della bella argiva. In basso, Eros e il suo comprimario - forse Antèros - gonfi d'amore giudicano la bontà dell'oro e con esso l'autenticità del sentimento di Giove, sfregando la punta di un dardo e di una delle monete su una pietra di paragone. Il loro piglio - una delle prove più alte del catalogo del pittore - è reso con grande disinvoltura, così come la resa delle carni e delle tenere ali che identificano il fanciullo di destra come l'Amore celeste, raffigurato vis-à-vis col suo inseparabile compare, personificazione dell'Amore terreno.

Due disegni già avvicinati a questo dipinto, entrambi conservati a Besançon, sono stati resi noti nel 1957 da Arthur Ewart Popham, di cui uno, assai interessante, mostra la figura di Danae in una posizione diversa rispetto a quella infine adottata. Un'incisione settecentesca di Étienne Desrochers (British Museum, inv. 1837, 0408.338) colloca invece l'esecuzione della tela al 1531.

Antonio Iommelli




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