La tavola, firmata e datata in basso a sinistra "Raphael Urbinas MDVII.", fu commissionata da Atalanta Baglioni come pala d’altare per la sua cappella nella chiesa di San Francesco a Perugia, nella quale era già sepolto il figlio Grifonetto, ucciso durante una lotta fratricida per il potere sulla signoria di Perugia.
L'opera rimase nella città umbra per cento anni, finché una notte, con la complicità dei frati, fu prelevata di nascosto e inviata a Roma a papa Paolo V, che ne fece dono al nipote Scipione Borghese (1608).
Originariamente era sormontata da una cimasa con l'immagine di Dio Padre benedicente (Perugia, Galleria Nazionale dell'Umbria) e accompagnata da una predella con la raffigurazione delle Virtù teologali, oggi ai Musei Vaticani.
L'ingente numero di disegni preparatori documenta il laborioso evolversi del progetto compositivo, reso progressivamente più drammatico e dinamico nell'originale iconografia del "trasporto". L'innovativa composizione della Deposizione segna il passaggio a un nuovo linguaggio espressivo, preludio alla successiva fase romana dell'artista.
inizio del XIX secolo; modanata, con intagli a fogliette lanceolate, fusarola, palmette e boccioli, dorata.
Perugia, chiesa di San Francesco al Prato, cappella Baglioni, 1507; Roma, cardinale Scipione Borghese, 1608. Inventario Fidecommissario Borghese 1833, A, p. 10, n. 27. Acquisto dello Stato, 1902.
in basso a sinistra, in caratteri dorati: RAPHAEL • VRBINAS • M • D • VII
La celebre tavola dell’artista urbinate conserva la denominazione tradizionale tramandata da fonti e inventari, sebbene l’evento raffigurato si riferisca a un momento successivo alla Deposizione dalla croce, ovvero quello del Trasporto del corpo di Cristo al sepolcro.
La scena in primo piano mostra le grandi figure avanzare verso la grotta che si apre nella quinta di roccia a sinistra, posta su un piano rialzato cui si accede salendo due gradini, sui quali spicca la firma e la data 1507 in caratteri dorati. L’incarnato pallido e luminoso del bellissimo corpo di Gesù, coperto da un perizoma rosato e sollevato dai tre portatori per mezzo di teli, emerge al centro del gruppo principale dei personaggi tra i colori squillanti delle loro vesti. Giovanni, già sul poggio, si sporge verso il Cristo con espressione dolente, mentre Maria Maddalena, la sola donna del gruppo, accorre a sostenere la mano di Gesù. Appena in secondo piano, sulla destra, è la Vergine svenuta sostenuta da tre pie donne: una, inginocchiata, si volge verso di lei con gesto improvviso a sorreggerla per le ascelle, la seconda le sostiene la fronte e la terza, con la testa volta verso il gruppo del Cristo, le circonda la vita con le braccia allacciate.
Lo sfondo si estende tra le due quinte della grotta e del monte Calvario, sul quale due soldati indicano la croce centrale ancora con la scala poggiata e il cartiglio; nel paesaggio montuoso, solcato da una valle dove scorre un corso d’acqua, si scorgono una città, case, un castello su un’altura, per il quale è stata proposta l’identificazione con il castello di Antognolla (Oddi Baglioni 2010). Presso uno specchio d’acqua, tra salici e pioppi, sono una coppia in piedi e un cavaliere che lascia abbeverare il suo cavallo.
La provenienza della tavola e il suo arrivo nella collezione Borghese sono ben note. Il dipinto fu commissionato a Raffaello da Atalanta Baglioni per la propria cappella nella chiesa di S. Francesco al Prato a Perugia, come comprovato dalle fonti a partire da Vasari e dalla documentazione storica (questione riassunta da Cooper 2010, e v. Shearman 2003, II, pp. 77-78, 108-112; Garibaldi, Sperandio 2010, pp. 65-77). Costituiva la parte principale di un’ancona incorniciata da una struttura lignea, che comprendeva una predella con raffigurazioni a monocromo delle Virtù teologali (Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana, Invv. 40330, 40331, 40332), un fregio con putti e grifi e una cimasa con il Padre eterno benedicente (sono a Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, il fregio originale nonché la tavola con il Padre Eterno, per alcuni eseguita da Domenico Alfani su modello dell'originale, per altri copia seicentesca del pittore perugino Stefano Amadei).
Oggetto dell’interesse del cardinale Scipione Borghese, al quale doveva essere familiare per aver frequentato l’università cittadina, la Deposizione fu trafugata con la complicità dei frati la notte tra 18 e 19 marzo 1608 per giungere a Roma probabilmente entro il 20 dello stesso mese. La folta documentazione a testimonianza dell’evento, elencata da Paola Della Pergola (1959, pp. 116-120), è ulteriormente precisata da Marina Minozzi (2006, pp. 103-109; 2023, pp. 27-30): la tavola fu portata nel palazzo del cardinale in Borgo dove, entro il settembre successivo, fu dotata di una cornice, realizzata dal falegname Vittorio Roncone e dorata da Rinaldo e Annibale Corradini. Intorno al 1620 l’opera è testimoniata nel palazzo di Ripetta ormai completato. Nel 1809 fu portata nella residenza torinese di Camillo Borghese e quindi a Parigi, per tornare a Roma nel 1816; a seguito dei danni subiti nel trasporto si procedette a un restauro affidato nello stesso anno a Pietro Camuccini, mentre la cornice, corrispondente a quella attuale, sarà rifatta l’anno seguente.
Tranne questa parentesi la tavola rimase quindi nel palazzo di città, salvo qualche possibile spostamento temporaneo a metà del XVII secolo nella villa Pinciana, dove è descritta da Manilli nel 1650, giusto negli anni in cui era stata vista da Richard Symonds (1649-51) nel palazzo; nella villa la elenca ancora la Nota delli musei del 1664 mentre di nuovo nel palazzo è citata da Pietro de’ Sebastiani (1683). A meno che non si debba pensare alla compresenza di qualcuna delle molte copie che nel tempo erano state realizzate, fatto sul quale sono in corso nuove ricerche. Una copia era stata fatta eseguire da Scipione, insieme a cinque lampade d’argento, quale dono a parziale compensazione inviato alla chiesa perugina: all’agosto del 1608 risale un pagamento a Giovanni Lanfranco per una copia del dipinto, della quale non si hanno ulteriori notizie mentre, dopo la donazione nel 1609 delle lampade e del dipinto “manu alicuius periti pictoris”, le fonti locali, almeno dagli anni settanta del Seicento, descrivono in chiesa la copia del Cavalier d’Arpino (Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria).
Esistono numerosi disegni autografi posti in relazione con l’opera, generali e di dettaglio, che dimostrano una graduale evoluzione dall’iconografia tradizionale del Compianto alla versione dinamica del Trasporto al sepolcro, che sono stati oggetto di accurate ricerche (da parte, tra gli altri, di Ferino Pagden 1983, 1986; Joannides 1983, 2006; Rovigatti Spagnoletti 1984; Kang, Kemp 2006; Herrmann Fiore 2010; Gnann 2017). È d’altra parte sterminata la bibliografia sulla tavola raffaellesca dal XIX secolo a oggi, nell’ambito della quale si ricordano, oltre ai lavori riassuntivi di Meyer zur Capellen (2001, 2006), gli approfonditi studi dedicati all’opera dalla Galleria Borghese (Ferrara, Staccioli, Tantillo 1972; Raffaello 1984; Coliva 2006; Herrmann Fiore 2010; Minozzi, Ciofetta 2023).
Una vasta parte degli studi è volta in particolare a definire la genesi formale della composizione, che appare fortemente innovativa. Vi si rintracciano i possibili richiami iconografici più prossimi all’artista, quali Signorelli – in particolare per il Compianto nella cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto – Michelangelo – tra gli esempi più immediati di confronto, la Pietà vaticana per il Cristo, il tondo Doni per la donna inginocchiata, il san Matteo della Galleria dell'Accademia di Firenze, ma anche la Pietà della National Gallery di Londra – fino alle incisioni della Grande Passione di Dürer e al riscontro – veramente stringente – con la Deposizione incisa da Mantegna nel 1480 circa. Un riferimento alle teorie albertiane e all’esempio, qui raccomandato, della rappresentazione della morte di Meleagro tratta da rilievi antichi quale modello per una efficace traduzione dell’immagine della morte, oltre che del trasporto del corpo, è stato proposto da Settis (2006, 2013); sebbene appaia comune, dal medioevo in avanti, almeno l’uso di figurare l’assenza di vita tramite l’espediente formale della caduta inerte del braccio, come vediamo rappresentato, in questa tavola, il corpo di Gesù.
La raffigurazione di una scena dinamica e narrativa quale quella del trasporto al sepolcro introduce una novità rivoluzionaria nella concezione stessa della pala d’altare, dove tali soggetti a sviluppo temporale sono tradizionalmente ospitati in spazi secondari, quali gli scomparti di una predella; sull’altare viene invece qui posta alla devozione dello spettatore una vera e propria Sacra rappresentazione. In essa è ricompreso inoltre l’episodio dello svenimento della Vergine, più frequentemente presente nelle scene di Andata al Calvario, Crocifissione e Compianto, qui legato strettamente al momento del trasporto verso il sepolcro.
L’analisi contestuale della composizione, cui contribuiscono in modo importante le recenti indagini diagnostiche condotte sulla tavola (2019) offre ulteriori spunti di riflessione sul significato della scena e sul rapporto con la sua destinazione, oltre che con le istanze della committenza. I due gruppi di figure furono studiati separatamente, come dimostrano i disegni rimasti, e ciò trova preciso riscontro nel metodo usato dall’artista e rivelato dalle indagini, che consente il proporzionamento e il “montaggio” di parti distinte della composizione; un metodo geometrico del comporre già prospettato da Kang, Kemp (2006). Il gruppo principale fu dipinto per primo e nessuna delle figure presenta pentimenti, salvo piccoli aggiustamenti dei profili; il solo cambiamento, già noto, fu l’eliminazione della figura femminile volta all’indietro accanto alla Maddalena, con il risultato di accentuare il dinamismo e concentrare l’attenzione sulla figura di Cristo. La gestualità e la funzione della figura doveva essere però considerata importante dall’artista, tanto da decidere, prima di eseguire il gruppo della Madonna, di usare una simile impostazione per modificare il profilo della donna in piedi a sinistra, che nei disegni era rivolta verso la Vergine. Il gruppo delle pie donne così nuovamente concepito, anch’esso privo di pentimenti, trova in tal modo un efficace collegamento visivo con quello del trasporto.
Forti rielaborazioni appaiono invece nello sfondo, dove varie modifiche sembrano effettivamente dimostrare un’attenzione particolare alla definizione degli edifici con il castello, spostato inoltre più in basso, e dove al Calvario, spostato verso destra, viene dato un maggiore sviluppo dimensionale.
La scelta del soggetto è strettamente legata al contesto della chiesa francescana cui è destinata; qui Raffaello aveva già dipinto la pala con l’Assunzione e Incoronazione della Vergine per la cappella Oddi (Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana), la cui committente Alessandra era legata da parentela con Atalanta Baglioni (Luchs 1983): un tema mariano, caro al francescanesimo. La chiesa era il più importante centro francescano di Perugia e le due cappelle Oddi e Baglioni erano in posizione di rilievo in prossimità del transetto e in corrispondenza tra loro (Luchs 1983; Ettlinger 1986; Locher 1994; Cooper 2001, 2004, 2010; Borgnini 2005, 2010).
Anche il racconto delle vicende successive alla Crocifissione e dei suoi protagonisti è infatti oggetto di divulgazione devota in ambito francescano sin dal medioevo e la sua influenza nelle arti figurative è ampiamente esaminata dagli studi (cfr. almeno Bologna 2006). La diffusione di tali tematiche è legata strettamente alle numerose edizioni in piccolo formato di testi devozionali, in latino e tradotti in volgare, quali le notissime Meditationes vitae Christi, testo tardomedievale basato sul Vangelo di Nicodemo, attribuito al testimone diretto di quei fatti. Le Meditationes si soffermano sulla descrizione del dolore di Maria per le sofferenze inferte al Figlio e descrivono le diverse occasioni in cui la Madre viene meno, in particolari momenti della Passione. La devozione francescana tende infatti al riconoscimento e alla sublimazione del dolore personale del fedele nella via dell’imitazione di Cristo e della mediazione di Maria, e ritroviamo tali estreme drammatizzazioni anche nella consuetudine popolare delle sacre rappresentazioni.
L’ultimo di questi episodi è proprio quello che viene rappresentato nella tavola: quando, dopo le molte insistenze da parte di Giovanni, sollecitato da Nicodemo e da Giuseppe d’Arimatea, Maria lascia andare il corpo del Figlio a lungo compianto, che viene sollevato e trasportato alla tomba: a quella vista, la Madre sviene ancora una volta. È notevole che, proprio in un periodo in cui la dottrina ufficiale tendeva a scoraggiare tale rappresentazione come inopportuna (Hamburg 1981, pp. 45-75, rilevava la letteratura contemporanea ostile a tale tematica - tra cui il trattato De spasmo Beatae Virginis Mariae del domenicano Tommaso de Vio, del 1506 - che tuttavia non ebbe particolare impatto almeno fino alla Controriforma; Penny 2004, pp. 25-28; cfr. Ciofetta 2023, pp. 42-43 e nota 10), nella tavola raffaellesca il tema sia invece rispecchiato fedelmente, dimostrando il fondamentale legame con il contesto francescano di destinazione.
Nell’ambito di tale contesto e sulla scorta delle stesse fonti appare conseguente l’identificazione delle due figure ai lati di Giovanni con gli altri due protagonisti del racconto, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, dove a quest’ultimo, ebreo convertito connotato dal manto giallo, e apostolo segreto di Gesù, spetta il ruolo di evangelista, testimone e autore del racconto di questi eventi. I due, descritti come tali da Francucci (1613), non sono stati concordemente riconosciuti nella letteratura sull’opera, a volte scambiati tra loro e a volte rimasti nella generica definizione di “portatori”. Un’altra proposta identifica il personaggio a destra di Giovanni con san Pietro (Spivey 2001, Coliva 2006 e 2023, Herrmann Fiore 2010); tale figura implicherebbe però la manifestazione di un rapporto con la Chiesa romana, che in una contestualizzazione così specificamente orientata sembrerebbe meno probabile.
L’occasione della commissione dell’opera è la nuova decorazione della cappella funebre di Atalanta Baglioni in S. Francesco, donata nel 1499 dalla madre a lei e al nipote: Grifonetto vi era già sepolto e Atalanta lo sarebbe stata per volontà testamentaria, predisposta nel 1509 all’indomani della conclusione dei lavori e delle disposizioni dotali (Cooper 2001 pp. 554-561). La morte violenta di Grifonetto a causa di una faida familiare nel 1500, indicato come motivo della commissione sin dall’Ottocento con Burckhardt (1860, pp. 31-32) anche sulla scorta del racconto vasariano, è infatti un riferimento suggestivo ma cronologicamente lontano; la cappella è il luogo preposto per dare pubblica dignità ed evidenza alla fede dei suoi patroni nella salvezza eterna. Dunque l’identificazione ideale con la sofferenza materna della Vergine appare plausibile, specie nell’ambito di una devozione francescana riscontrata nella fedeltà familiare alla chiesa; così come al giovane figlio defunto, quale allegorica intercessione, potrà fare ideale riferimento la figura centrale, immagine nobile, propriamente mondana, ma proiettata con lo sguardo verso un salvifico percorso ultraterreno. Potrebbe essere suggestivo, in quest’ottica, vedere il gruppo della coppia e del cavaliere nello sfondo come una ideale riunione familiare nell’aldilà.
La tavola è oggetto di un importante intervento di diagnostica e restauro nel 1972, quando l’I.C.R., in un’operazione conservativa esemplare, la libera dalla pesante struttura metallica applicata sul retro da Luigi Lais negli ultimi decenni dell’Ottocento. Da quel momento la tavola non accusa più danni rilevanti; è sottoposta nel 1995 a controlli conservativi e diagnostica e nel 2004-2005 viene attuato un intervento di revisione estetica. Nel 2019 viene eseguita un’avanzata campagna diagnostica e, a seguire, un intervento di restauro consistente in una revisione estetica della superficie dipinta e, soprattutto, in una rilevante operazione di conservazione preventiva, tramite la liberazione del supporto ligneo dall'apparato di sostegno precedente e dall’applicazione di un sistema di controllo programmato e di monitoraggio continuo delle condizioni fisiche e dei parametri climatici.
Simona Ciofetta