Il dipinto, eseguito dal pittore fiorentino Domenico Cresti detto il Passignano, proviene dalla raccolta di Benedetto Martiniani, ceduto nel 1620 al cardinale Scipione Borghese. Raffigura la deposizione del corpo di Cristo, qui sollevato da Giuseppe d'Arimatea e da Maria Maddalena, uniti nel dolore alla Vergine Maria e a Giovanni Evangelista. Questo soggetto, ampiamente frequentato dagli artisti, è qui trattato in maniera chiara e incisiva, in linea con i dettami della cultura controriformata. Ricordato in tutti gli inventari della Galleria, fu eseguito certamente a Roma come suggerisce la presenza della colonna traianea visibile al centro della composizione.
Salvator Rosa (cm 170 x 148 x 8,5)
Roma, collezione Benedetto Martiniani, ante 1620; Roma, collezione Borghese, 1650 (Manilli 1650); Inventario 1693, Stanza IX, n. 17; Inventario 1790, Stanza IV, n. 63; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 35. Acquisto dello Stato, 1902.
Come segnalato nell'inventario Borghese del 1693 ("un quadro grande in tela con un Xto deposto dalla Croce, la Vergine e altre tre figure del n. 130. Cornice intagliata dorata del Martiniani"; Inv. 1693), indicazione sfuggita alla critica, il dipinto proviene dalla collezione di Benedetto Martiniani, un ignoto personaggio, proprietario di una vigna adiacente al casino di Porta Pinciana, ceduta nel 1620 insieme a diversi quadri al cardinale Scipione Borghese. La pista, dunque, percorsa da Paola della Pergola (1959), secondo cui la tela fu acquistata dal potente prelato direttamente dalle mani del Passignano, risulta impraticabile, così come l'idea di identificarla con la tela segnalata da Scipione Francucci nel 1613 (a tal proposito si veda anche Hermman Fiore 1992). Questi, autore di un poemetto sulla collezione Borghese, parla infatti di un "Christo deposto di Croce del Cav[aliere] Passignano" e della Madonna "al piede della Croce sanguinosa", dettaglio - quest'ultimo - estraneo alla composizione in esame.
Avvicinata debitamente da Iacomo Manilli (1650) e in tutti gli inventari borghesiani al catalogo del Cresti, questa Deposizione si ispira certamente al quadro con analogo soggetto di Lodovico Cigoli (Vienna, Kunstihistorisches Museum, inv. 204), datato dalla critica al 1599 (Petrioli Tofani 1980). In effetti, oltre al tema, l'opera mostra diverse similitudini con il dipinto viennese, come le morbidezze cromatiche di ascendenza veneta e quella monumentalità tipica delle opere di Santi di Tito e di Annibale Carracci (cfr. Baldassarri 2002), una combinazione che ben collima con le parole di Giulio Mancini a proposito dello stile del pittore: "[...] di maniera fra la natione fiorentina e veneziana; ha gran pratica, risoluzione e buon colorito di maestro" (Ead. in Tiarini 2000).
L'opera raffigura la deposizione del corpo di Cristo dalla croce, qui sorretto da Giuseppe d'Arimatea e Maria Maddalena, ritratta in ginocchio davanti alle figure della Vergine e di Giovanni Evangelista. Fonte d'ispirazione per questa composizione, oltre alla Pietà michelangiolesca del duomo fiorentino, è una xilografia di Albrecht Dürer del 1510 (Herrmann Fiore 1992) che sfoggia alcuni elementi compositivi in comune, come la raffigurazione di una persona inginocchiata in primo piano col braccio disteso e la rappresentazione di Cristo seduto su una pietra ad angolo. Datato da Anna Maria Petroli Tofani al 1599 (Ead. 1986), la sua esecuzione è stata debitamente posticipata da Nisman (1986) al 1612 circa, riferimento confermato dalla critica (Gasparrini 2011) e qui condiviso.
Antonio Iommelli