L’opera è un tipico esemplare dei quadretti da collezione di gusto naturalistico e profano, diffusissimi nelle corti italiane alla metà del Seicento. Raffigura diversi fiori colti nei vari momenti della loro breve esistenza: i tulipani sono appena sbocciati, mentre sui rami spinosi di una rosa damascena, quasi sfiorita, alcune foglie appaiono già rovinate. Ad arricchire la composizione, tra viole cornute e pratoline, un insidioso calabrone e due farfalle - una cavolaia dalle ali bianche e una vanessa del cardo - la cui presenza, unita al vaso di cristallo, rimanda al tema della vanitas e della caducità del tempo. Sulla destra, riconoscibile per la trama a scacchiera dei suoi petali, una fritillaria tenella, fiore caro alla tradizione fiamminga i cui semi furono diffusi dagli Ugonotti in tutta Europa in seguito alla loro fuga dal Regno Unito. La presenza di questo fiore nei quadri è generalmente associata al tema della fuga e della persecuzione.
Salvator Rosa (cm 34,5 x 27,5 x 3,3)
Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza VIII, nn. 8-9; Della Pergola 1959); Inventario 1790, Stanza XI, n. 109; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 35. Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questo dipinto è ancora ignota. La tavola, infatti, è segnalata per la prima volta in collezione Borghese a partire dal 1693, citata nel relativo inventario come "un quadretto di un palmo con fiori dentro in tavola con due tulipani del n. 259" (Inv. 1693). Elencata come opera d'ignoto, fu assegnata nel 1790 al pittore italiano di nature morte Mario Nuzzi, detto Mario dei Fiori, attribuzione ripetuta da Giovanni Piancastelli (1891) ma respinta da Adolfo Venturi (1893) che dal canto suo riferì il quadretto, assieme al Vaso di fiori attribuito a Jan Brueghel il Vecchio sempre di collezione Borghese (inv. 362), ad Abramo Mignon. Il primo a mettere in dubbio tale giudizio fu Roberto Longhi (1928), seguito da Paola della Pergola (1959) che, riprendendo un vecchio parere di Giulio Cantalamessa, dubitò che i due dipinti appartenessero alla stessa mano, attribuendo la tavola in esame a Willem Van Aelst, artista olandese attivo in Italia tra il 1649 e il 1656. Secondo la studiosa, infatti, l'opera Borghese, databile intorno al 1670, mostrava una certa vicinanza alla Natura morta con frutti già attribuita al Van Aelst (Oxford, Ashmolean Museum), in particolare a quel gusto di dipingere foglie bacate e insetti nella stessa composizione. Tale attribuzione, ribadita da Chiara Stefani (2000) e da Kristina Herrmann Fiore (2006), non è qui condivisa. L'opera infatti manca di quella singolare abilità dell'olandese nel rievocare con i suoi tocchi la consistenza della materia, mostrando al contempo una certa durezza, estranea al pittore e più prossima all'esperienza di un pittore tedesco, attivo nei primi anni del XVII secolo, non ignaro della contemporanea produzione italiana di nature morte.
Antonio Iommelli