Il dipinto fa parte del nucleo di quadri appartenuti a Lucrezia d'Este e passati in eredità a Olimpia Aldobrandini, moglie di Paolo Borghese. La struttura compositiva dell'opera, basata sulla rigida simmetria frontale delle figure rispetto all'elemento architettonico centrale, conferisce alla scena un carattere teatrale. La figura di Cristo è caratterizzata dal forzato bilanciamento del corpo, mentre quelle dei due aguzzini hanno una posa studiata e innaturale. L'atmosfera così creata ha portato ad accostare il dipinto ad alcune opere contemporanee di Mazzolino, al quale rimanda anche la sottile tendenza al grottesco che pervade alcune figure. Una recente attribuzione alternativa ha riferito la tavola al pittore ferrarese Domenico Mona (Ferrara, 1550 circa- Parma, 1602 circa).
Collezione Borghese, Inv. 1693, Stanza VIII, n. 414; Inventario 1790, Stanza X, n. 6; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 13. Acquisto dello Stato, 1902.
Recentemente riferito alla mano del pittore ferrarese Domenico Mona (Ferrara, 1550 circa- Parma, 1602 circa; Herrmann Fiore 2002) sulla base dell’inventario di Lucrezia d’Este d’Urbino in cui è descritto un dipinto «di N.S. battuto alla Colonna di mano del Mona con cornice intagliata et dorata», il dipinto è con ogni probabilità da ricondurre all’attività del Garofalo tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta del Cinquecento (Danieli 2008). Nonostante le testimonianze biografiche ci restituiscano anche un’attività copistica del Monio, sono qui assenti i tratti peculiari del pittore che avrebbero consentito la distinzione dell’opera dell’artista, dalla stesura fortemente pastosa con rimembranze venete del Tintoretto e della bottega dei Bassano, all’epoca della stesura dell’inventario della nobildonna Estense ancora vivente, da quella del Tisi, di impostazione più classica, dalle proporzioni garbate e sinuose e dall’inquadramento architettonico fortemente classicheggiante ripreso in particolare dalle invenzioni raffaellesche incise da Marcantonio Raimondi.
Gesù, appoggiato ad una colonna tra due archi a tutto sesto di un edificio classicheggiante, è pervaso da una forte luce e da una brezza che gli scopre il volto compostamente barbaro e il panneggio che gli copre le parti intime. Davanti alla struttura architettonica, che equilibra uno spazio interno coperto da una tenda a destra ad uno aperto con tre astanti davanti ad una apertura paesaggistica tipicamente ferrarese sulla sinistra, i due sgherri che stanno per flagellare il corpo ancora incorrotto del Cristo.
In base all’osservazione degli elementi stilistici, il dipinto è stato variamente datato: considerato dapprima opera “piuttosto tarda” (Della Pergola 1955), è stato poi avvicinato agli anni 1527-1528 (Fioravanti Baraldi 1977; Eadem 1993) in base al confronto con l’Annunciazione della Pinacoteca Capitolina proveniente dalla collezione Pio (inv. PC 5; Guarino in Pinacoteca Capitolina. Catalogo generale 2006, n. 24), infine accostato alla data del 1519, dati alcuni tratti di somiglianza con la Strage degli innocenti per la chiesa di San Francesco a Ferrara, oggi in Pinacoteca Nazionale (inv. PNFe 161), soprattutto per quanto concerne il forte raffaellismo derivante dall’omologa composizione incisa dal Raimondi (Danieli 2008).
Lara Scanu