Salvator Rosa cm 99,4 x 76 x 7
(?) Roma, acquisto di Marcantonio IV Borghese, 1783 (Della Pergola 1959); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 13. Acquisto dello Stato, 1902.
Secondo Paola della Pergola (1959) questo dipinto, assieme a molte opere di arte straniera, sarebbe entrato nella raccolta Borghese in seguito a un acquisto del principe Marcantonio IV Borghese, notizia che per quanto credibile non trova però conferma in alcun documento. Escludendo dunque tale pista, la prima notizia certa sul quadro risale al 1833, anno in cui l'estensore del Fidecommisso lo descrive come tela autografa di Anton van Dyck, nome rivisto sia da Giovanni Morelli (1892), che parlò di opera bottega, sia da Adolfo Venturi (1893) che, pur rivedendo l'attribuzione al maestro olandese, richiamò l'attenzione su un passo di Giovan Pietro Bellori in cui si accenna di un 'Cristo in Croce' con gli occhi rivolti al cielo, eseguito dal Van Dyck a Roma per il cardinale Roberto Bellarmino (Le Vite 1672, p. 152). Tale accenno - da ritenersi errato per l'incongruenza dei fatti (il porporato morì nel settembre 1621, prima dunque della partenza del pittore per l'Italia; cfr. a tal proposito Schaeffer 1909) - fu di fatto scartato da tutta la critica (Longhi 1928; Van Puyvelde 1950; Della Pergola 1959) che al contempo cassò senz'alcun dubbio anche l'autografia vandickiana, relegando questa tela tra le opere di bottega dell'olandese.
Secondo Paola della Pergola (Ead. 1959) che pubblica il dipinto come 'maniera di Anthonis van Dick', l'iconografia di questo Cristo risalirebbe a Pieter Paul Rubens, fatta conoscere da Van Dyck in Italia attraverso gli esemplari dell'Accademia di Venezia, del Palazzo Reale di Genova, del Museo di Capodimonte di Napoli e di Villa Albani a Roma (quest'ultimo ritenuto il più vicino alla versione Borghese; cfr. Della Pergola 1959). A detta della studiosa, infatti, la tela romana sarebbe stata eseguita da un pittore italiano al seguito di Van Dyck, giudizio mai più messo in discussione, ripreso sia nel 2000 da Chiara Stefani (in Galleria Borghese) che nel 2006 da Kristina Herrmann Fiore.
Il dipinto, raffigurante Gesù sulla croce, lo ritrae ancora vivo, nudo fino alla vita, inchiodato ai due pali di legno con quattro chiodi (due alle mani e due ai piedi), un dettaglio - quest'ultimo - molto in voga nei Paesi Bassi dove diversi pittori, a differenza dei loro colleghi europei, furono più restii ad adottare quella che oggi è considerata la più classica delle rappresentazioni, ossia un unico chiodo per entrambi i piedi, forse pensando in tal modo di infondere maggior drammaticità e pathos alla scena.
Antonio Iommelli