Il dipinto è il più precoce nell'ambito del consistente corpus di opere del Dossi appartenente alla Galleria. Il soggetto è stato individuato nell'episodio tratto dal leggendario racconto di Erodoto, rivisitato da Boiardo per Ercole d'Este. Candaule, re della Lidia, ossessionato dalla bellezza della consorte Rodope, arriva al punto di convincere uno dei suoi soldati, Gige, ad ammirarla nascosto nella sua stessa stanza. Accortasene, la regina impone all'intruso la scelta tra due possibilità: essere condannato o uccidere il re che ha ordito l'odioso inganno. Gige uccide Candaule, divenendo così re della Lidia.
Collezione Borghese, Inventario 1630 ca., n. 121; Inventario 1693, Stanza VI, n. 19; Inventario 1790, Stanza VI, n. 32; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 25. Acquisto dello Stato, 1902.
Questa interessantissima quanto enigmatica tela è uno dei dipinti ferraresi della collezione Borghese della prima ora. Probabilmente si può riconoscere già nell’inventario redatto intorno al 1630 dove compare al numero 121: «Un quadro d’una Venere nuda alto 1, largo 2 cornice a frontespizio con colonne di noce. Incerto» (Hermann Fiore 2002). L’attribuzione, come quasi tutte le opere di questa officina pittorica, è oscillante nei documenti antichi: nell’inventario del 1693 il dipinto viene ascritto a Paris Bordon, nel 1790 è accostata al Pomarancio, l’autore viene definito «incognito» nell’elenco fidecommissario del 1833 per poi essere riconosciuta come opera dello Scarsellino nell’inventario museale del 1905 (Hermann Fiore 2002: 1905, n. 225).
Così come la paternità dell’opera, molto controverso è anche il soggetto, compreso per la prima volta da Lionello Venturi nel 1909: si tratta della storia di Gige e Candaule, narrata per la prima volta da Erodoto (Storie, I, 8-12) e tradotta per la prima volta dal greco da Matteo Maria Boiardo intorno al 1480 (Modena, Biblioteca Estense Universitaria, Manoscritti, Fondo Estense, segn. alfa.h.03.22, cat. It.1726) per l’«Eccellentissimo Principe Ercole di Ferrara». Rifacendosi alla lettura di questo episodio offerta dall’umanista Lorenzo Valla nel De voluptate (1431) e nel De vero falsoque bono (1433), l’opera rappresenta la vicenda del re Candaule che mostra al suo amico e soldato Gige la bellezza della moglie Rodope. La regina, adirata, avrebbe posto l’uomo davanti ad una drammatica scelta: la prigione o il tirannicidio, e Gige scelse di uccidere il re; secondo un’altra tradizione, proprio Rodope e il militare avrebbero ucciso in accordo il sovrano grazie all’espediente di un anello magico (Platone, Repubblica, II, 358a-360d) che rese invisibile Gige e gli consentì di portare a termine l’omicidio e divenire nuovo re della Lidia.
Questo dipinto è la prima rappresentazione del tema fino ad oggi nota nella pittura del primo Cinquecento, elemento che sicuramente non ha agevolato l’attribuzione al giovane Dosso, sebbene a questo rimandino la composizione proporzionata e delicata echeggiante le soluzioni giorgionesche, l’interessante utilizzo del chiaroscuro e il gusto per il frammento architettonico a conclusione di un paesaggio simultaneamente notturno e diurno nei toni.
La tradizione storico-critica aveva riconosciuto in questa piccola tela la mano del giovane Dosso a partire dai primi decenni del Novecento (Longhi 1928; De Rinaldis 1948), poi seguita da Paola Della Pergola nella scheda dedicata all’interno del catalogo dei dipinti della Galleria del 1955 e più recentemente ribadita sia dagli studi più legati alla collezione Borghese (Herrmann Fiore 1993; Coliva 1994; Stefani 2000; Herrmann Fiore 2002), sia in quelli monografici sul pittore (Ballarin 1993; Ciammitti 1998; Romani in Ballarin 1994-1995), ad eccezione della mostra monografica del 1998, nella quale non venne inserita poiché non ritenuta autografa dai curatori.
Lara Scanu