Rinvenuto secondo alcune fonti antiche (Martinelli 1644, p. 136) nella Vigna di Monsignor Santarelli presso la Basilica di S. Maria Maggiore, a Roma, il gruppo entrò nella collezione di Giovanni Battista Della Porta, dove subì diversi interventi restaurativi volti ad agevolarne l’immissione sul mercato antiquario. Sfumate le trattative d’acquisto con Vespasiano Gonzaga, nel 1609 fu venduto a Giovan Battista Borghese.
Il gruppo è citato per la prima volta da Iacomo Manilli nel 1650 e da Domenico Montelatici nel 1700, che lo descrivono nella Villa Pinciana al primo piano, nella Camera di Diogene (attuale Sala XV), dove rimase esposto su un piedistallo ligneo colorato almeno fino al 1765; manca nella guida di Luigi Lamberti ed Ennio Quirino Visconti (1796) e non viene inserito fra le opere vendute ai francesi (1807). All'epoca della ricostituzione della raccolta nella palazzina, tra il 1819 e il 1832, il gruppo venne esposto nella sala VI del Casino su una tavola di granito rosso (1840), è menzionato dal Venturi al primo piano nella sala XIV (1893), per poi essere spostato subito dopo la vendita della collezione allo stato (1902) nel vestibolo di ingresso, sull’ara sepolcrale dedicata a Stazio. Esposto poi al piano terra nel Salone di Mariano Rossi, è attualmente nella stanza di Apollo e Dafne.
Il gruppo rappresenta Venere che con l’arte della seduzione placa la bellicosità di Marte, vinto dall’amore per la dea, alla presenza di Cupido. L’episodio è narrato dagli autori latini, che indicano in Venere l’unica divinità in grado di frenare le azioni violente di Marte, il guerriero tremendo, che sotto l’effetto della dea diventa docile amante, al punto da spogliarsi – in alcune raffigurazioni – non solo degli abiti, ma anche delle armi che ne contraddistinguono la tradizionale iconografia (Lucrezio, De rerum natura, 31-36; Ovidio, Ars amatoria, II, vv. 563-566). Questa è una delle numerose repliche del gruppo, utilizzata frequentemente anche per ritrarre coppie di sposi, secondo una formula eclettica in voga al tempo di Adriano e Antonino in cui le teste-ritratto vengono sovrapposte ai corpi nudi idealizzati della coppia divina. In questo piccolo gruppo la dea è nuda nella parte superiore del corpo e indossa il mantello che la riveste dalla vita in giù: rappresentata di tre quarti di lato, solleva le braccia in direzione del compagno, che cinge con il sinistro, mentre il destro è proteso verso il petto dell’amato. La gamba destra è tesa e portante, la sinistra invece è leggermene alzata e poggia su un suppedaneo. La testa, cinta da una fascia, è volta a sinistra, sollevata verso il compagno: il volto è paffuto e tondeggiante, la bocca piccola, carnosa e dischiusa, l’acconciatura è semplice ed eseguita in maniera approssimativa, con morbide ciocche raccolte sulla nuca in una piccola crocchia. Il dio della guerra, che qui si presenta in “nudità eroica”, è raffigurato con elmo con cimiero, folta capigliatura e un balteo sospeso alla spalla destra, mentre nella sinistra regge uno scudo e impugna il gladio con la destra. La testa, rivolta a destra e lievemente sollevata, ha un volto tondo, incorniciato da morbide ciocche che fuoriescono dalla visiera del copricapo. La figura è frontale, con la gamba sinistra flessa e il capo volto verso destra. Sulla sinistra un piccolo Eros, in piedi, regge una fiaccola e ha il capo volto verso la coppia. Il gruppo, noto anche come «Concordia-Gruppe», è il risultato dell’accostamento di due modelli scultorei originariamente indipendenti: la figura femminile ricorda le Afroditi seminude del IV secolo a.C. e del periodo ellenistico. La posa generale della dea richiama quella della Venere di Capua (MANN inv. 6017), secondo uno schema derivante dall’Afrodite del celebre santuario dell’Acrocorinto e più tardi rielaborato nel tipo romano della Vittoria di Brescia, risalente all’epoca Flavia (Delivorrias et alii 1984, pp. 71-72, nn. 627-632). Il dettaglio del panneggio che le sfiora delicatamente i fianchi è paragonabile a quello della Venere di Milo (Parigi, Museo del Louvre, inv. MA399). Marte, invece, è un tipo virile di derivazione policletea, rielaborazione del celebre Doriforo, secondo un modello attestato anche nel gruppo analogo conservato agli Uffizi (Mansuelli 1958, pp. 177-178, n. 160). Si tratta di una versione alternativa a quella più frequentemente attestata, in cui la Venere tipo Capua è piuttosto associata all’Ares tipo Borghese, come nel gruppo un tempo pertinente alla collezione di Camillo Borghese, ora al Louvre (inv. MA 1009; De Kersauson 1986-96, n. 59, pp. 144-147) e in quelli a Roma nei Musei Capitolini (inv. S 652; Avagliano 2010) e al Museo Nazionale Romano (inv. 108522; Calza 1977, pp. 19-20, n. 16, tavv. XI-XII.). La creazione del gruppo originario – forse nell’ambiente della scuola di Pasiteles, greco allora attivo a Roma – risale all’età augustea, quando venne concepito per rappresentare l’unione fra Venere, progenitrice della gens Iulia, e Marte, padre di Romolo, nel gruppo cultuale posto all’interno del tempio di Marte Ultore, nel Foro di Augusto, di cui parla Ovidio (Ovidio, Tristezze, II, vv. 295-296) e si conserva un frammento (Roma, Mercati di Traiano, inv. FA 2563a; Zanker 1968, p. 19). La presenza di Eros, poi, allude alle intenzioni pacifiche del dio della guerra, simboleggiando l’amore e l’augurio di prosperità, secondo una struttura ideologica ripetuta in diversi monumenti dell’epoca augustea, come la base di Sorrento (Sorrento, Museo Correale di Terranova), o il rilievo di Algeri (Algeri, Museo Nazionale, inv. 217). Il soggetto ottenne ampia diffusione nel II sec. d.C., quando venne modificato con finalità ritrattistiche in riproduzioni a tutto tondo e utilizzato sovente nella decorazione di rilievi e sarcofagi romani. La coppia divina venne assunta così a simbolo dell’immortalità del vincolo amoroso, apportatore di serenità e di pace, alludendo al ruolo di protettori e progenitori dei Romani, in conformità con la narrazione, tramandata da Esiodo, del legittimo amore fra le due divinità (Esiodo, Teogonia, vv. 933-937). In tale accezione allegorica, il gruppo si prestò anche a un utilizzo propagandistico, scelto per effigiare le coppie imperiali di Adriano e Sabina e (forse) Marco Aurelio e Faustina Minore, in cui l’imperatore si presentava come il garante della pace e della prosperità dell'impero.
È a questo stesso orizzonte cronologico, in particolare all’età antonina, che si può ricondurre il gruppo Borghese.
Jessica Clementi