La tavola, firmata sulla base dell'organo 'L.E.O', raffigura i santi Cecilia e Valeriano mentre nel silenzio della loro casa ricevono la visita di un angelo. Secondo la Passio, dopo il matrimonio, la vergine romana rivelò all'uomo di essere cristiana, convertendo quest'ultimo e suo fratello Tiburzio al cristianesimo. Abbracciata la nuova fede, un angelo apparve loro con due bellissime corone di fiori, simbolo del loro imminente martirio.
L'opera, attestata in collezione Borghese dal 1650, è stata attribuita dalla critica al pittore Lelio Orsi di Novellara. Tuttavia alcuni errori prospettici, così come la qualità a tratti discontinua dell'esecuzione - evidente soprattutto nella resa dell'angelo - lasciano ipotizzare l'intervento della bottega.
In climabox (cm 89,2 x 73,8 x 6,7)
Roma, collezione Borghese, 1650 (Manilli 1650; Della Pergola 1955); Inventario 1693, Stanza II, n. 21; Inventario 1700, n. 40; Inventario 1790, Stanza VII, n. 37; Invv. 1725, 1765, pp. 120, 146; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 34. Acquisto dello Stato, 1902.
Alla base delle canne dell'organo, in lettere capitali: 'L.E.O.'
La provenienza di questo dipinto è tuttora ignota. L'opera, infatti, è attestata in collezione Borghese a partire dal 1650, così segnalata da Iacomo Manilli tra i beni presenti nel casino di Porta Pinciana: "L'antico-moderno di Santa Cecilia con S. Valeriano, coll'Angelo di sopra, è di incerto e fu ritoccato dal Domenichino" (Manilli 1650). Riferito anticamente al Correggio (Inv. 1693; Rossini 1725; Pungileone 1891) e ad Orazio Gentileschi (Inv. 1700; Inv. 1790), nel 1928 fu avvicinato a Lelio Orsi (Longhi 1928), attribuzione generalmente accettata dalla critica (Salvini 1950; Della Pergola 1955; Freedberg 1971; Hoffmann 1975; Romani 1984; Hermann Fiore 2006) ad eccezione di Kunze (1932) e di Aldo de Rinaldis (1939) il quale sciolse curiosamente le tre lettere visibile alla base dell'organo ('L.E.O.') in favore di Ottavio Leoni.
Come individuato da Roberto Longhi (Id. 1928) e confermato da Vittoria Romani (Ead. 1984), l'opera mostra una certa attenzione ai modelli correggeschi riletti alla luce del Parmigianino e del Bedoli, profondamente influenzati dalla cultura religiosa del secondo Cinquecento. Per quanto concerne la sua esecuzione, il quadretto è stato variamente datato dalla critica, oscillando dagli anni del soggiorno romano dell'artista (Longhi 1928; Della Pergola 1955) fino agli ultimi tempi della sua attività (Salvini 1950; Freedberg 1971; Romani 1984). Secondo Roberto Salvini (Id. 1950), l'opera, da scalare agli anni Ottanta del Cinquecento, rappresenterebbe uno dei lavori più tardi del pittore, caratterizzato da un malioso decadentismo evidente sia nel busto di Cecilia, le cui fattezze richiamano quelle della Santa Margherita di Cremona (Museo Civico, inv. 160); sia nella gestualità edulcorata di Valeriano, il cui afflato risulta affine a quello della Carità e della Giustizia della Pietà estense (Modena, Galleria Estense, inv. 296).
Restaurata per la prima volta nel Seicento dal Domenichino (Manilli 1650), la composizione ha perso nei secoli quello smalto originale da giustificare una certa staticità e freddezza estranee al catalogo del pittore. Tuttavia, nonostante alcuni dubbi sollevati della critica (cfr. Clerici Bagozzi, Frisoni 1987), il quadretto è sicuramente ascrivibile all'Orsi, sebbene l'impaginazione della scena ed alcuni errori prospettici lascino ipotizzare un massiccio intervento da parte della bottega.
Antonio Iommelli