Citata per la prima volta nell'inventario del 1693 con l'attribuzione al Perugino, l'opera ha mantenuto tale riferimento fino a quando non è stata assegnata al pittore fiorentino Andrea del Sarto, collocata dalla critica tra le sue opere giovanili. A partire da sinistra le figure rappresentano Apollonia, ritratta mentre ostenta la tenaglia con l'osso di una mandibola; Antonio da Padova, con l'immancabile giglio; Cristo, sorretto al centro dalla Madonna, da Giovanni Evangelista e Maria Maddalena; Elisabetta, regina d’Ungheria, col saio, il giglio e la corona; e infine Margherita d'Antiochia raffigurata con la croce e il drago.
Cornice cinquecentesca decorata palmette e intrecci di vimini (cm 37 x 204 x 7)
Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza IV, n. 2); Inventario 1790, Stanza VIII, n. 25; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 34. Acquisto dello Stato, 1902.
In basso a sinistra '198'
"Un quadro longo in tavola alto un palmo in circa con dentro una Pietà con altri Santi con cornice dorata del n. 198 di Pietro Perugino" (Inv. 1693). Così, col numero inventariale '198' tuttora visibile in basso a sinistra, il dipinto è elencato per la prima volta in casa Borghese nel 1693, attribuito comprensibilmente in tale occasione al pittore umbro Pietro Perugino. Questo nome, ripetuto nei successivi inventari sulla villa (Inv. 1790; Inv. Fid. 1833), fu ripreso da Giovanni Piancastelli (1891), ma decisamente rifiutato da Adolfo Venturi (1893) che nel 1893 preferì parlare di pittore anonimo di area umbra, parere recuperato diversi anni dopo da Ingeborg Fraenckel (1935) datando la predella intorno agli anni Trenta del Cinquecento.
Il primo studioso ad accostare debitamente la tavola al fiorentino Andrea del Sarto fu Roberto Longhi (1928), attribuzione accettata fin da subito da tutta la critica (De Rinaldis 1948; Sinibaldi 1925; Della Pergola 1959; Freedberg 1961; Id. 1963; Monti 1965; Natali 1989; Stefani 2000; Herrmann Fiore 2006), ad eccezione di Bernard Berenson (1936) che dal canto suo optò per Domenico Puligo, amico del D'Agnolo.
A riportare la composizione nel solco sartesco, collocandola intorno al 1508, fu Sidney J. Freedberg (1963) che trovando molte relazioni con gli affreschi del chiostro fiorentino degli Scalzi, giunse alla conclusione che l'opera potesse essere in qualche modo collegata alla pala della chiesa di San Gallo di Firenze (Noli me tangere, Museo degli Uffizi, inv. 516), condividendo con essa quel lessico peruginesco dai lievi accenti leonardeschi.
Chiaramente la sua forma oblunga - tipica di una predella - ha fatto sì che molti studiosi la ritenessero debitamente parte di un dipinto da cui è stata separata (Monti 1965), avvicinandola variamente al Matrimonio mistico di Santa Caterina di Dresda (Gemäldegalerie, inv. 76; Shearman 1965), alla perduta tavola della chiesa delle monache di Monte Domini a Greve in Chianti (Shearman 1965; Natali 1989) o al dipinto della chiesa di San Giustone di Pietramarina di Monte Albano (Franklin 1997). Come suggerito da Antonio Natali (1989), è probabile che la composizione sia appartenuta a un monastero francescano, forse a un convento di suore (Id.), costringendo di conseguenza il pittore a raffigurare due santi dell'ordine francescano (Antonio ed Elisabetta d'Ungheria) e ben tre personaggi femminili (Apollonia, Elisabetta e Margherita).
Recentemente, nella mostra aretina dedicata ai Della Robbia, famiglia di scultori italiani, la scena centrale con la Pietà - soggetto che trovò ampio successo anche in seguito alle predicazioni di Girolamo Savonarola - è stata messa in rapporto con le opere in terracotta realizzate da Andrea Della Robbia (Mozzati 2009), un significativo riscontro che riporta la composizione Borghese al primo decennio del Cinquecento, quando Andrea del Sarto, dopo aver stretto rapporti con il ceramista fiorentino, si rifece ai suoi modelli, qui ben evidenti nella resa plastica e ingombrante dei panneggi. A tale datazione - precisamente intorno al 1508 - rimanda ancora Antonio Natali (1989; Id. 1998).
Antonio Iommelli