Il dipinto appartenne allo scultore Bartolomeo Cavaceppi, il quale nel 1787 lo cedette insieme ad altre opere a Marcantonio Borghese in cambio di un vitalizio di cinquanta scudi mensili. Il quadro venne ricondotto alla mano di Dirk van Baburen da Roberto Longhi, che per primo lo accostò alle opere eseguite dall’artista per San Pietro in Montorio a Roma. La composizione è in stretto rapporto con il dipinto di stesso soggetto eseguito da Caravaggio per Ciriaco Mattei nei primi anni del Seicento, di cui furono prodotte numerose copie.
‘800 (con fregio loto/palmette) cm. 163,5 x 230,5 x 9
Roma, Marcantonio Borghese, 1787 (dal vitalizio di Bartolomeo Cavaceppi); Inventario 1790, Stanza I, n. 31; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 10, n. 39. Acquisto dello Stato, 1902.
Un documento conservato nel Fondo Borghese (Archivio Segreto Vaticano) rende noto che il dipinto faceva parte di un nucleo di opere che lo scultore Bartolomeo Cavaceppi cedette al principe Marcantonio Borghese nel 1787, in cambio di un vitalizio di cinquanta scudi mensili (cit. in Della Pergola 1959, p. 225, n. 95). L’opera è citata come “Il Bacio di Giuda di Vander”, da riferirsi probabilmente all’abbreviazione o deformazione di un nome fiammingo.
Nello stesso anno, sul Giornale delle belle arti (1787, p. 124) compare un trafiletto dedicato alle opere esistenti nella Villa Pinciana di Marcantonio Borghese, tra cui figura “Un bellissimo bacio di Giuda del Wandich”. Il dipinto ritorna nell’inventario della collezione del 1790, il primo a darne notizia, con la medesima descrizione presente nel documento inerente al vitalizio, mentre in quello fidecommissario del 1833 compare alla voce “Il bacio di Giuda, di Sein [Stern ?], largo palmi 9; alto palmi 6, oncie 2”.
L’attribuzione della Cattura di Cristo a Dirk van Baburen è avanzata per la prima volta da Roberto Longhi (1926, pp. 69-70), il quale rifiuta il nome di Bartolomeo Manfredi, già proposto da Adolfo Venturi (1893, p. 46), e riconosce nell’opera un rapporto con le opere eseguite dall’artista olandese per la chiesa di San Pietro in Montorio a Roma. In particolare, lo studioso ritiene l’esecuzione del dipinto Borghese di poco precedente alla Deposizione per la chiesa romana, databile 1617, mentre Slatkes (1965, p. 54) e Franitz (2013, p. 106) lo ritengono successivo, del 1619 circa.
All’indomani del suo arrivo a Roma (1615 circa), il pittore di Utrecht aveva già affrontato l’episodio dell’arresto di Cristo in un dipinto destinato all’ambasciatore spagnolo Pietro Cussida (oggi presso la Fondazione Longhi a Firenze). In questo caso il tema include anche il brano di Pietro, santo eponimo del committente, che recide l’orecchio a Malco, rappresentato nella parte destra della scena. Secondo Franits (cit.), il dipinto per Cussida manifesta ancora una netta distanza dagli esiti di quello Borghese, in cui le figure, rappresentate di tre quarti, sono caratterizzate da maggiore grazia e armonia.
Il dipinto presenta notevoli attinenze con la Cattura di Cristo (Dublino, National Gallery of Ireland) dipinta da Caravaggio per Ciriaco Mattei nei primissimi anni del Seicento, di cui esistono numerose copie. L’elaborazione del medesimo soggetto da parte di Dirk van Baburen avviene in chiave più equilibrata e composta. Alle lucide armature che illuminano la scena con i loro bagliori, si contrappone la figura centrale del Cristo dalla rossa veste, lo sguardo alzato al cielo e le mani intrecciate, unico tra i personaggi ad essere rivolto verso lo spettatore. La composizione appare costruita e orchestrata in modo cadenzato, così da suggerire una drammaticità più teatrale che profonda. L'opera risente dell'elaborazione del linguaggio caravaggesco operata da Bartolomeo Manfredi, indirizzato verso una sostanziale semplificazione delle drammatiche implicazioni di ordine artistico e morale proprie della pittura del Merisi. Le invenzioni caravaggesche divennero così di più facile divulgazione e, riprodotte in differenti contesti, erano pronte a trasformarsi in elementi di una pittura “di genere” che avrebbe dato luogo al fenomeno del cosiddetto “caravaggismo”. Questo metodo, definito appunto “Manfrediana methodus”, trovò larga diffusione a Roma nei primi decenni del XVII secolo, in particolare presso la consistente colonia di artisti nordici che vi soggiornava alla ricerca di nuove e prestigiose committenze. Van Baburen, in particolare, che lavorò con David de Haen nella chiesa di San Pietro in Montorio, seppe mediare la lezione caravaggesca con lo stile barocco proprio delle opere di Rubens.
Franits (cit., p. 107, nn. A13W1, A13R1) segnala due copie del dipinto di pressoché identiche dimensioni, di cui attualmente non si conosce collocazione.
Pier Ludovico Puddu