Il dipinto venne definito da Giovan Pietro Bellori come la più bella opera eseguita dal Cavalier d’Arpino. La scena di aggressione notturna ivi rappresentata è tra le composizioni più celebri e imitate del Cesari, tanto che se ne conoscono diverse repliche, copie di bottega e derivazioni. Il quadro giunse nella collezione di Scipione Borghese in seguito al sequestro delle opere conservate nello studio del pittore, ordinato nel 1607 da Paolo V. Citato nelle guide della collezione e negli inventari di famiglia con la corretta attribuzione al Cesari, il dipinto venne trasferito nel Palazzo Borghese entro il 1683 e tornò nella Villa solo nell’Ottocento, prima dell’acquisto da parte dello Stato. Il dipinto risale verosimilmente al 1598 circa.
Si tratta di una delle più ammirate e imitate opere del Cavalier d’Arpino, tanto che Bellori ebbe a scrivere in una postilla alla Vita dell’artista scritta da Baglione: “la più bella opera che facesse il Cavaliere” (cit. in Röttgen 1973, p. 91).
Conservata nello studio del Cesari fino al 1607 quando, a seguito dell’accusa di detenzione illecita di armi rivolta all’artista, venne requisita dal fiscale di Paolo V insieme ad altri 104 dipinti, tutti donati al cardinal nepote Scipione Borghese e ancora in gran parte conservati in Galleria Borghese. Nell’inventario del sequestro il dipinto figura senza attribuzione come “Un altro quadro della presa di Christo”. La presenza dell’opera nelle mani di Scipione Borghese, nonché l’indubbia autografia, viene attestata già nel Trattato del 1621 di Giulio Mancini (ed. 1956, I, p. 238): “Presa di Cristo all’Orto che possiede l’illustrissimo Borghese”. L’attribuzione è confermata nella guida della Villa Borghese di Jacomo Manilli del 1650 (p. 113) dove l’opera è citata come “La presa del Signore, con San Pietro, che taglia l’orecchia a Malco, è del Cavaliere Giuseppe” e ne viene indicata la collocazione nel terzo camerino (attuale Sala XIII) dopo la stanza delle Tre Grazie. Dalla fine del Seicento il dipinto fu trasferito nel Palazzo Borghese a Campo Marzio, dove venne conservato per tutto il secolo successivo, come risulta dalle descrizioni di Pietro De Sebastiani (1683, p. 27), dell’inventario del 1693 (“un quadro in rame con cornice dorata di p.mi 4 in circa con la Cattura di N.ro Sig.re alI’Horto del N° 156 del Cavalier Gioseppe d’Arpino”), della guida di Gregorio Roisecco (1750, pp. 158-159) e di quella di Ridolfino Venuti (1767, I, II, p. 410). Citato ancora in Palazzo Borghese nell’inventario del 1790 e in quello fidecommissario del 1833, il quadro tornò nella Villa in data imprecisata nel corso dell’Ottocento.
Come già evidenziato dalla descrizione di Manilli l’episodio notturno della cattura di Cristo, raffigurato al centro del dipinto, è accompagnato in primo piano dalla potente e drammatica rappresentazione di San Pietro che recide l’orecchio a Malco. A sinistra è ritratto un giovane che, nudo, fugge dai soldati mentre essi afferrano il lenzuolo in cui era avvolto. Eccezionale nella gestione delle due sorgenti di luce, la luna e la fiaccola che illumina le figure, è probabile che la composizione sia stata influenzata dalla famosa xilografia di Dürer del 1510, anch’essa contenente l’episodio di San Pietro e Malco, dal ciclo della Grande passione. Il precedente più importante per l’atmosfera d’insieme della scena è tuttavia stato identificato con l’affresco di Marcantonio Dal Forno nell’Oratorio del Gonfalone a Roma, del 1574-75 circa (Strinati 1979, p. 11; Röttgen 2002, p. 309). Non è escluso che questo piccolo capolavoro su rame del Cesari possa aver parzialmente influenzato la Cattura di Cristo di Caravaggio (Dublino, National Gallery of Ireland), anch’essa caratterizzata da una doppia sorgente luminosa, anche se in questo caso la luna è invisibile e la differenza nella concezione del soggetto è evidente: rispetto alla rappresentazione senza tempo dell’arpinate, la scena elaborata da Caravaggio è dotata di una forza espressiva che la riporta immediatamente sul piano del dramma umano (Benedetti 1993, pp. 39-40; Slatkes 2001, p. 331). D’altra parte, l’inclusione dell’episodio di San Pietro e Malco nel rame del Cavaliere può aver avuto un influsso su Dirck van Baburen nella sua prima versione della Cattura di Cristo, oggi a Firenze presso la Fondazione Roberto Longhi, mentre nella seconda versione del 1619 circa, in Galleria Borghese (inv. 28), il pittore guarda al modello caravaggesco (Slatkes, cit.).
La scena si sviluppa concentricamente intorno alla figura di Cristo, isolato al centro, che rappresenta il fulcro della composizione. Secondo Röttgen tale impostazione, così come i potenti contrasti luministici, ha avuto in questo caso un impatto determinante su Caravaggio, questa volta nell’elaborazione del Martirio di San Matteo nella cappella Contarelli in San Luigi dei francesi.
Riguardo alla datazione dell’opera, l’affinità con la Battaglia di Tullo Ostilio contro i Veienti (inv. 391) nella dinamica dei movimenti e nella distribuzione dei toni induce lo studioso a collocarla nel biennio 1596-97. Diversamente Stefania Macioce (2000, p. 194) la ritiene eseguito dopo il 1598, anno in cui il pittore si trovava a Venezia, dove presumibilmente ebbe modo di vedere la Cacciata dei mercanti dal tempio di Palma il Giovane (Kassel, Gemäldegalerie), da cui forse rimase influenzato.
La fortuna della Cattura di Cristo del Cesari è attestata dalle repliche autografe e di bottega e numerose altre copie, tra cui si ricordano quella dello Staatliche Kunstsammlungen di Kassel, con il presunto intervento del fratello Bernardino, e quella dell’Accademia di San Luca, da taluni ritenuta autografa (Papi 2019, pp. 21-22).
Pier Ludovico Puddu