Come l'Offerta a Vertumno e Pomona e gli Arcieri, conservati in Galleria, l'affresco ornava una delle sale del Casino Olgiati, un tempo situato nell’area dell’attuale galoppatoio nella Villa Borghese, acquistato dai Borghese nel 1831 e distrutto nel 1849. Le pitture, già gravemente deteriorate, furono distaccate e successivamente trasportate al Palazzo Borghese a Campo Marzio. L'affresco è oggi attribuito al Siciolante e datato tra il 1556 e il 1560. Nell’opera sono raffigurate le nozze tra il grande condottiero Alessandro Magno e la più celebre delle sue mogli, la principessa persiana Rossane.
Collezione Borghese, 1831. Acquisto dello Stato, 1902.
“È degno d’esser veduto il casino di questa villa, la quale si dice, che apparteneva a Raffaello d’Urbino; ed in fatti vi sono diverse pitture della sua scuola, fra le quali nella volta della seconda stanza del primo piano due quadretti di sua propria mano; in uno dei quali sono rappresentate le Nozze di Alessandro […]” (Vasi, 1791, p. 283). Così nel 1791 Mariano Vasi descrive quello che veniva ancora considerato il ‘Casino di Raffaello’, tanto da attribuire l’opera in questione proprio alla sua mano. Il Casino, già Olgiati Bevilacqua, era stato acquistato dal principe Borghese nel 1831; l’affresco, insieme con gli altri due (inv. 294 e 300), venne staccato nel 1836 e integrato in collezione Borghese, conservato fino al 1894 nel palazzo di famiglia in Campo Marzio e solo successivamente nella Villa. La scena rappresenta le nozze di Alessandro Magno con la principessa persiana Rossane. Seguendo fedelmente la tradizione iconografica classica, che si basa su fonti quali la descrizione ecfrastica di Luciano di Samosata, l’affresco mostra il momento dell’offerta della corona da parte del condottiero alla principessa. I due protagonisti sono circondati da amorini: essi giocano un ruolo centrale nella scena prestando servigi e animando la futura unione. Accanto a loro si trova “Efestione… con una fiaccola accesa in mano, appoggiato a un bellissimo giovane” (Luciano). I colori cangianti e lo stile delle figure dimostrano la mano di Siciolante nonostante l’invenzione iconografica sembri derivare da disegni o stampe precedenti. Infatti, diversi studiosi hanno avvicinato l’affresco a un disegno ritenuto autografo di Raffaello, conservato all’Albertina di Vienna, dal quale vennero tratte numerose incisioni. Le pose dei personaggi, nel disegno svestite, risultano quasi plasmate sul celebre modello, nonostante la qualità complessiva del nostro affresco sia decisamente inferiore.
Lo scozzese John Hamilton nella sua Schola Italica Picturae (Hamilton 1773) inserisce sorprendentemente questo affresco in una sorta di galleria ideale di capolavori al fianco di maestri assoluti quali Michelangelo, Leonardo, Raffaello e Tiziano. Per il testo di Hamilton Giovanni Volpato tradusse ad incisione la scena (firmata e datata 1773) con il titolo ‘Alexandri et Roxane Nuptiae’, documentando l’affresco in loco (‘Exstat Romae in Aedibus suburbani Marchionis Olgiati’); l’affresco venne inciso anche da J.G.A. Frenzel nel 1823. Ancora, nel 1839, Quatremere de Quincy scriverà: “Leggendo queste descrizioni di Luciano con sotto agli occhi i disegni di Raffaello, si crederebbe quasi che il testo delle prime fosse stato disteso dopo l’esecuzione de’ secondi […] Il primo di essi disegni ha servito sicuramente di schizzo alla pittura del soggetto d’Alessandro e Rossane […]” (de Quincy 1839, p. 204)
Tale sopravvalutazione deriva senza meno dall’erronea associazione del ciclo alla mano di Raffaello. L’affresco venne riferito al principio da Passavant a Perin del Vaga, che lo riteneva, così come Berenson, la traduzione da un disegno originale di Raffaello, acquistato da Rubens e poi confluito nelle collezioni austriache di Vienna, e in seguito più genericamente alla scuola di Raffaello (Passavant 1860, pp. 286-290; Berenson 1938, p. 218). L’attribuzione alla mano di Siciolante da Sermoneta fu avanzata solo nel Novecento, prima da Bernice Davidson (1966, p. 63) poi da John Hunter (1996, pp. 136-139): attribuzione ora parzialmente accettata dalla critica.
Gabriele de Melis