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Leda

copia da Leonardo da Vinci

(Vinci 1452 - Amboise 1519)

Il dipinto, lungamente considerato autografo di Leonardo, costituisce in realtà una delle copie più significative della perduta Leda, ricordata dalle fonti in Francia nel 1625. L'opera, celebratissima ai suoi tempi, rivisitava il mito antico dell'amore di Giove, trasformato in cigno, per Leda; costituiva una riflessione del Maestro sul tema delle forze della Natura, già indagate, nella loro perenne mutazione, nello sfondo della Gioconda.  Nella composizione Borghese l'uovo quasi nascosto dall'erba ne è il centro simbolico, cui fa da contrappunto la figura della Leda, ancora stretta nell'abbraccio dell'amante. Le nove copie dell'opera attualmente note dimostrano la fortuna del tema.

Scheda tecnica

Inventario
434
Posizione
Datazione
Ante 1517
Tipologia
Periodo
Materia / Tecnica
tempera su tavola
Misure
cm 115 x 86
Provenienza

Collezione Borghese, Inventario ante 1633, n. 80 (Corradini 1998, p. 451); inv. 1693, n. 313, sesta stanza dov’è il zampanaro; inv. 1700, Stanza VI, n. 4; inv. 1790, Stanza VI, n. 33; inv. 1812; Inventario Fidecommissario Borghese Borghese 1833, p. 24. Acquisto dello Stato, 1902.

Mostre
  • 1939 Milano
  • 1950 Vercelli
  • 1950 Siena
  • 1984 Roma, Palazzo Barberini
  • 1994 Malmö, Rooseum Konsthall
  • 1994 Stoccolma, Kulturhuset
  • 2000 Roma, Museo del Corso
  • 2001 Vinci, Palazzo Uzielli, Museo Leonardiano
  • 2003-2004, Atene, Alexandros Soutzos Museum
  • 2006-2007 Firenze, Galleria degli Uffizi
  • 2009 Roma, Palazzo Venezia
  • 2009-2010, Kyoto Metropolitan Art Museum - Tokyo National Museum of Modern Art
  • 2012 Fukuoka, Art Museum
  • 2013 San Paolo-Brasilia, Centro Cultural Banco do Brasil
  • 2018-2019 Roma, Scuderie del Quirinale
  • 2019 Roma, Villa Farnesina, Accademia dei Lincei
  • 2022-2023 Roma, Museo Nazionale Romano
Conservazione e Diagnostica
  • 1936/37 Carlo Matteucci
  • 1966/67 Angelini
  • 1993 Laboratorio ex SBAS presso Palazzo Barberini
  • 2001 Laura Ferretti
  • 2001 Editech di Maurizio Seracini (indagini diagnostiche):
  • 2009 Lidia Del Duca
  • 2018 Paola Mastropasqua in collaborazione con Andrea Parri
  • 2019 indagini diagnostiche eseguite in accordo con il Louvre in occasione dell'anno leonardesco

Scheda

Leda, moglie di Tindaro, re di Sparta, fu amata da Zeus, che le si presentò sotto forma di cigno giacendo con lei lungo le sponde del fiume Eurota. Da questa unione nacquero diversi figli con la peculiarità di essere generati attraverso uova, da cui fuoriuscirono i gemelli divini Castore e Polluce, Elena di Troia e Clitennestra.

Il tema ebbe molto successo fin dall’antichità e nel Rinascimento gli artisti si soffermarono spesso nella rappresentazione erotica dell’unione tra la donna e il cigno. Il dipinto in esame sceglie di esaltare invece la presenza stante della bellissima Leda nuda che abbraccia teneramente il cigno amante che la cinge sul fianco con l’ala, mentre con lo sguardo controlla i due pargoli che giocano nel prato davanti ad un uovo intatto. La scena è ambientata in un sereno paesaggio fluviale, forse proprio in riferimento al fiume Eurota citato nel mito. In realtà sotto l’attuale stesura del dipinto le indagini radiografiche hanno rivelato la presenza di una prima idea con quattro putti (Barbiellini Amidei, 1983, p. 100 ss.) o sei (Bartoli, 2001, p. 67).

La presenza di quest’opera nella collezione Borghese è attestata per la prima volta nell’inventario del 1633 ca. (Corradini 1998, p. 451), dove compare come “Un quadro d’una Leda con il cigno e due puttini, alto 4 ½ largo 3 ½ cornice dorata, Leonardo da Vinci”. La menzione ritorna anche nell’inventario del 1693: “un quadro di 4 palmi con una Donna nuda che abbraccia un cigno con due putti con un mazzo di fiori in mano del n. 472 con cornice dorata di Leonardo da Vinci” e con tale attribuzione, appena corretta in scuola di Leonardo negli elenchi fidecommissari (Mariotti 1892, p.88, n. 1) rimane fino a quelli redatti da Piancastelli (AGB, ms. 1888-1891, p. 74), per essere rifiutata per la prima volta da Morelli (1890, p. 148), che lo attribuisce a Giovanni Antonio Bazzi detto ‘il Sodoma’ seguito da Venturi (1925, p. 204) e da Longhi (1928, p.221), mentre Wilhelm Suida (1929, p. 232) avanza il nome di Francesco Melzi e invece Kemp-Smart (1980, p. 185) e Marani (1998, p. 374) propongono quello di Bugiardini. Più di recente, Bartoli ha più genericamente pensato ad un anonimo artista toscano (2001, p.145), Federica Zalabra (2018, n. 114) e Maria Forcellino (2019 sch. 3.2 p. 315-316) a una copia da Leonardo. Va inoltre segnalato che il dipinto nell’inventario Borghese del 1812 risulta tra i quadri mancanti dalla camera delle Veneri a Roma, perché spediti a Torino il 6 settembre 1809.

L’opera è tradizionalmente riferita alla tradizione iconografica che rimonta ad un originale leonardesco, forse un cartone, da cui derivarono numerose copie. Insieme al dipinto degli Uffizi, la cosiddetta Leda Spiridon (inv. 1890, n.9953) e a quello della collezione Pembroke, Wilton House, attribuito a Cesare da Sesto, la Leda Borghese è considerata una delle prime e più fedeli derivazioni.

Per quanto riguarda la vicenda dell’originale leonardesco, lo studioso Jestaz sulla scorta di un documento del 1518 (Jestaz, 1999, p. 69) ha ricostruito come l’allievo prediletto di Leonardo, Giovan Giacomo Caprotti detto Salai, abbia venduto al re di Francia Francesco I una Leda, insieme alla Sant’Anna, alla Gioconda e al San Giovanni Battista oggi al Louvre (inv. 776; MR 319; inv. 779; MR 316; inv. 775; MR 318). In un altro documento, l’inventario dei beni del medesimo Salai, ricompare nel 1525 una Leda, lasciatagli in eredità dal maestro, che vanta la valutazione più alta dell’elenco. Sicuramente nel 1625 Cassiano dal Pozzo vide una Leda a Fontainebleau, dove rimase per tutto il XVII secolo. È da segnalare che esiste anche un disegno con lo stesso soggetto (Windsor Castle, Royal Library, inv. RL 12759), datato al 1506 che Raffaello trasse probabilmente dall’originale leonardesco perduto.

Nella valutazione del dipinto in esame è fondamentale esaminare le differenze con le altre due versioni considerate le più prossime al modello vinciano, la Leda Spiridon degli Uffizi (inv. 1890, n.9953) e quella della collezione Pembroke a Wilton House. La Leda Borghese è stilisticamente la più morbida e luminosa nel trattamento, non appesantita dalla rimarcatura scura dei contorni che sono la memoria travisata dello sfumato leonardesco presente nelle altre opere. Si distingue inoltre per il maggior spazio dato all’elemento fluviale nel paesaggio e la dolcezza misteriosa del volto svagato della fanciulla. Infine è da notare nel dipinto Borghese rispetto alle altre due versioni, l’assenza dei fiori nelle mani, che però sono descritti e quindi presenti nell’inventario del 1693, e quindi spariti in seguito rispetto a quella data, forse durante un maldestro restauro.

Oltre al disegno di Raffaello, vanno ricordati quelli raffiguranti la testa della fanciulla, uno conservato al Castello Sforzesco di Milano (inv. B 1354), riferito a Leonardo e a Francesco Melzi, e l’altro a Windsor Castle (RL 12518), sicuramente autografo.

La Leda Borghese fu di certo eseguita prima della partenza di Leonardo per la Francia nel 1517 e fa parte delle opere che l’artista portò con sé nel suo peregrinare, quindi anche a Roma durante il suo soggiorno dal 1514 al 1517. In questi anni si trovava nella città anche Sodoma, che molto probabilmente ebbe modo di incontrare Leonardo (Calzona, 2019, p. 272-275). Se a questo dato aggiungiamo che nell’inventario di morte di Bazzi, datato 14 febbraio 1548 (Bartalini 2012), compare proprio un quadro di Leda, l’ipotesi attributiva del Morelli acquisisce un’altra consistenza. Significative a favore di questa tesi sono le somiglianze tra il dipinto della Galleria Borghese e un’opera romana di Sodoma, le Nozze di Alessandro e Rossane della Villa Farnesina, proprio nel dettaglio della donna, come anche l’Eva nella Discesa al Limbo della Pinacoteca Nazionale di Siena (inv. 443). Le figure femminili nude sono tutte al contempo possenti ed estremamente cariche di grazia, i loro corpi torniti e plastici si abbandonano a quella venatura di dolcezza tipica dell’artista vercellese che declina quasi verso il languore. Se a tali elementi si aggiunge che questi fu anche antiquario e collezionista di antichità (De Romanis, 2007, pp. 233-239), tanto da arrivare a chiamare il proprio figlio Apelle, manifestando un interesse consapevole per il mito e per la cultura classica, l’idea che egli abbia copiato l’unica opera a soggetto mitologico di Leonardo assume a maggior ragione significato.

Lucia Calzona




Bibliografia
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  • F. Zalabra in Ovidio, amori, miti e altre storie, catalogo della Mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 2018 - 2019) Roma 2018, n.114.
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