Considerata ormai concordemente capolavoro di Lorenzo di Credi, l'opera è stata a lungo ritenuta di mano di Leonardo. Malgrado l'evidente adesione a schemi leonardeschi, visibile soprattutto nell'impianto compositivo triangolare e nello sfondo paesaggistico, nel dipinto si riscontrano i caratteri tipici dell'arte del Credi che alla resa atmosferica predilige una stesura disegnativa netta e incisa, insieme alla resa analitica della realtà.
Firenze, Casa Salviati, 1612-1613 (Venturi 1893; Dalli Regoli 1966); Roma, Collezione Borghese, citato nell’inv. 1859. Acquisto dello Stato, 1902.
In esposizione temporanea alla Galleria Nazionale d'Arte Antica per la mostra "Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini"
Il dipinto appare nella collezione Borghese solo dopo il documento fidecommissario, testimoniato nel 1859 come opera appartenente al patrimonio libero della famiglia e scelta dal Venturi come compensazione per la vendita del presunto Ritratto di Cesare Borgia di Raffaello venduto al barone Rotschild. La composizione appartenne, originariamente, alla collezione Salviati, ed è probabilmente rintracciabile negli inventari del cardinale (1612-1613) come il «quadro con la Madonna, N.S. Bambino e S. Giovanni con cornice dorata».
Amoretti (1804) e Frizzoni (1891) collegano la tavola in analisi con il quadro di Clemente VII menzionato da Giorgio Vasari nella Vita di Leonardo da Vinci (1568 ed. 1879, IV, p. 25): è, infatti, ritenuto da gran parte della critica come uno dei dipinti in cui si ravvisa un maggior debito di Lorenzo nei confronti del genio vinciano, soprattutto per quanto riguarda la componente paesaggistica sullo sfondo, in cui i sinuosi torrenti d’acqua e le aguzze rocce sono pervase da un’atmosfera azzurrina, e per la trasparenza del vetro del vaso a sinistra della Vergine. Vicino a queste caratteristiche tipicamente leonardesche, si accosta la minuziosità disegnativa del Di Credi (Lemorlieff 1866, Venturi 1911), ravvisabile nelle vesti, nelle pieghe delle carni paffute del Bambino e di san Giovannino, nei fiori contenuti nel vaso e nel libro aperto, a destra, dove si legge il brano tratto dal libro del profeta Isaia «Ecce Virgo concipiet et pariet filium et vocabitur nomen eius Emmanuel» (7, 14).
Bernard Berenson, nei suoi repertori di dipinti rinascimentali fiorentini, data il quadro in un periodo posteriore al 1490, quando – a suo dire – gli artisti della città medicea iniziarono a rappresentare il piccolo Gesù in atto di benedire Giovanni Battista, tesi supportata anche da Gigetta Dalli Regoli (1966), che vi avvicina la figura del Cristo infante presente nella Madonna con Bambino e san Giovannino conservata presso la Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda (inv. Gal.-Nr.13). La datazione proposta dal Berenson è generalmente accettata dalla critica e vede parzialmente concorde van Marle (1932), che ristringe il range cronologico di produzione dell’opera entro il 1493.
Della composizione in collezione Borghese si trovano numerose repliche, censite (Dalli Regoli 1966) a Colonia, Wallraf-Richartz Museum; Amsterdam, Rijksmuseum; Edimburgo, National Gallery of Scotland e a Cremona, presso il Museo civico Ala Ponzone, oltre ad altre numerose variazioni di scuola sull’originale del maestro.
Lara Scanu