In base alle descrizioni ottocentesche del Casino Olgiati, un tempo situato nell’area dell’attuale galoppatoio nella Villa Borghese - acquistato dai Borghese nel 1831 e distrutto nel 1849 - l'Offerta a Vertumno e Pomona decorava la volta di una delle sale, le cui pareti erano affrescate con Le nozze di Alessandro e Rossane e gli Arcieri, affreschi staccati anch’essi oggi visibili in Galleria e databili tra il 1556 e il 1560. Il soggetto si riferisce al racconto mitologico delle due divinità agresti, simbolo di unione felice e fecondità. Anche per questa composizione è probabile l'utilizzo di modelli raffaelleschi, a loro volta derivati dal repertorio classico.
Collezione Borghese, 1831. Acquisto dello Stato, 1902.
L’episodio, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, tratta il lungo e resiliente corteggiamento da parte del dio Vertumno verso la prosperosa Pomona: egli, assumendo le più svariate sembianze, riuscì a conquistare la giovane solo assumendo la forma di una vecchia saggia. La scena tratta il momento successivo alla conquista in cui i due condividono il letto e vengono omaggiati con floridi cesti di frutti e fiori. Nell’iconografia tradizionale Vertumno e Pomona sono spesso circondati dai doni della terra, quali divinità preposte all’alternanza delle stagioni.
L’affresco doveva decorare la volta di una delle sale del Casino Olgiati con gli altri due, sempre in collezione Borghese, gli Arcieri (inv. 294) e le Le nozze di Alessandro e Rossane (inv. 303), con il significato simbolico dell’unione felice e della fecondità. Il Casino, acquistato nel 1831 dal principe Camillo Borghese per ampliare ancora i giardini che circondavano la villa (Hunter 1996, p. 137), era già in rovina nel 1836, anno in cui tutti e tre gli affreschi vennero staccati. L’edificio, oggi perduto, fu raso al suolo dalle cannonate francesi nel 1849 durante l’assedio di Roma guidato dal generale Nicholas Charles Victor Oudinot.
L’attribuzione di questi dipinti, non confermata da fonti certe, al pittore sermonetano Girolamo Siciolante non è stata condivisa da tutta la critica nonostante l’affresco respiri l’aria stilistica sperimentata a Roma dal pittore, e sarebbe da avvicinare all’impresa di decorazione in Castel Sant’Angelo. Cavalcaselle (Crowe-Cavalcaselle 1890, p. 370) associava tutti e tre a un artista che doveva avere confidenza con i disegni di Giulio Romano, mentre Passavant (1860, pp. 234, 236) reputava questo il meno riuscito, assegnando gli altri due a Perin del Vaga.
Tra i tre affreschi superstiti, ad Hunter viceversa questo sembra essere quello in cui l’artista sia riuscito meglio a esprimere la sua personalità: rispetto agli altri la scelta dei colori, pallidi e acidi, nonché la costruzione dello spazio architettonico dimostrerebbero qui una maggiore padronanza stilistica, piuttosto vicina ai paesaggi realizzati dal Siciolante nella loggia di Castel Sant’Angelo, arrivando ad ipotizzare addirittura un sodalizio con Perin del Vaga, quest’ultimo già responsabile nel cantiere di Paolo III Farnese (Hunter 1996, pp. 137-138, nota 9). Giudizio opposto venne espresso da Paola della Pergola che considera questo affresco «notevolmente inferiore» agli altri, forse realizzato «da un seguace che seguì il disegno con fedeltà, ma piuttosto rozzamente» (1959, p. 131); la stessa intuisce inoltre trattarsi di una derivazione da un disegno già esistente.
La notorietà critica di questi affreschi deriva per lo più dalla falsa attribuzione a Raffaello, proprietario e abitante di quel Casino «dove quel genio preferì godersi la vita, incurante d’arte e di gloria, accanto alla donna amata. È un monumento sacro. Il principe Doria, che l’ha comprata, pare voglia ora curarla in maniera degna. Raffaello ha ritratto ventotto volte sulle pareti la sua amante, in ogni sorta d’abbigliamenti e di costumi; anche nelle composizioni storiche tutte le figure femminili assomigliano a lei. La posizione della casa è assai bella […]. Ciascun particolare merita d’esser rilevato» (Goethe [1788]).
Gabriele de Melis