La tela proviene da Villa Mondragone di Monte Porzio Catone, acquistata nel 1613 dal cardinale Scipione Borghese. La grandiosità compositiva dell’opera e la plastica monumentalità delle figure appartengono a quella fase stilistica matura di Lanfranco, riferibile attorno al 1619 e il 1621, periodo in cui è attivo nella progettazione della decorazione della Loggia delle Benedizioni in San Pietro in Vaticano.
Il soggetto della tela illustra un episodio dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, rielaborato sul racconto omerico di Ulisse e Polifemo, nel quale si narra la favola di Norandino, re di Damasco, e della moglie Lucina costretti a rifugiarsi nell’isola di Sarpanto, abitata dal gigante Orco che sorprende la fanciulla nel tentativo di fuggire confondendosi con il gregge.
Salvator Rosa, 300 x 432 x 13 cm
Frascati, cardinale Scipione Borghese, 1619-1621 (Schleier 2002, pp, 198-200); Inventario 1693, Stanza III, n. 19; Inventario 1700, Stanza III, n. 72. Acquisto dello Stato, 1902.
Il quadro fu eseguito dal pittore parmense su commissione di Scipione Borghese che richiese il dipinto per la sua nuova villa tuscolana detta 'di Mondragone', acquistata nel 1613 dal duca Gian Angelo Altemps. L'opera, ricordata dai due principali biografi di Lanfranco, Giovan Pietro Bellori e Giovanni Battista Passeri, raffigura un episodio tratto dall'Orlando furioso di Ludovico Ariosto (canto XVII, ottave 26-65), raramente riprodotto in pittura e confuso da Bellori, con l'analoga vicenda di Ulisse e Polifemo, narrata da Omero nell'Odissea. Come affermato da Eric Schleier (2002, p. 198), il primo a riconoscere l'episodio e a citarne la fonte corretta - la Favola dell'Orco dell'Ariosto - fu Passeri e non l'autore dell'edizione francese dell'Itinerario di Roma, Mariano Vasi, come invece sostenuto nel 1955 da Paola della Pergola (1955, p. 53). La favola, che in effetti mostra diversi elementi di contatto con la vicenda mitologica di Ulisse nella terra dei Ciclopi, narra di Norandino, re di Damasco, e di Lucina, la giovane e bella principessa, figlia del potente e ricco sovrano di Cipro. Dopo essersi sposati, i due coniugi - di ritorno da un viaggio in Siria - naufragano sull'isola di Scarpanto, abitata da un orco marino che nonostante la cecità riesce a catturare Lucina e i suoi compagni. Nel frattempo, Norandino - dopo aver appreso dalla moglie del mostro antropofago che quest'ultimo non divorava le donne - riesce a penetrare nel buio della grotta, rivelando ai suoi amici il piano di fuga: cospargersi di grasso puzzolente e indossare pelli di pecora, così da confondere con il loro travestimento l'ignaro gigante. Ma, nonostante quest'arguto stratagemma, Lucina non riesce a scappare: riconosciuta al tatto dal mostro sulla soglia della caverna, viene infatti riacciuffata e riportata nelle profondità dell'antro e lì incatenata ad una roccia.
Attento ai versi di Ariosto, Lanfranco decise quindi di rappresentare il preciso istante in cui Norandino si volge a guardare l'amata, ritratta nel tentativo di varcare l'uscio della grotta: "Io mi rivolsi al grido; e vidi il mostro / che già gl'irsuti sogli le avea tratti" (ott. 56-57). Come si può notare, la scena è ambientata in un paesaggio definito da Schleier 'neoannibalesco' che, insieme allo stile robusto e vigoroso delle figure, giustifica - secondo lo studioso - la datazione del dipinto al secondo decennio del XVII secolo (Schleier 2002, p 198). Di fatto, la collocazione di quest'opera nel catalogo del parmense è una questione abbastanza spinosa, fissata da Salerno (1952, 1958) e da Posner (1965) intorno al 1605, contrariamente da Della Pergola (1955) che dal canto suo la collocava al 1615, ritenendola stilisticamente affine all'Ercole, Nesso e Dejanira di palazzo Costaguti, affresco eseguito tuttavia nel 1630 circa. Schleier, che nei suoi primi interventi aveva datato il dipinto ai primi anni Venti (1964, 1965) e successivamente (1983, 1988) verso il 1624-1625, ha fissato la sua datazione al 1619-1621, quando Lanfranco, in seguito al compito di progettare la decorazione della volta della Loggia delle Benedizioni in San Pietro in Vaticano, sviluppò un linguaggio più dinamico e barocco, riversando tali conquiste nella presente tela, commissionata da Scipione Borghese negli ultimi anni del pontificato di Paolo V, quando il pittore era nelle grazie del pontefice.
Il quadro fu collocato nella galleria della villa tuscolana, ultimata tra l'altro nel 1619 - come si legge "nei fondamenti di essa [...] col nome dei muratori" (Grossi Gondi 1901, p. 102, n. 3) - dove fu visto nel 1677 da padre Sebastiano Resta che però confuse il soggetto e scambiò la tela con un'opera di Annibale Carracci: "in fronte della Galleria di Mondragone vi è d'Annibale un paesone grande quanto è la facciata intiera di passi 14 in circa con entro un Polifemo che raconta le pecore tra le quali vestito da pecora sfugge Ulisse, et un altro pastore vien correndo" (Le Postille di Padre Resta 2016, p. 47). Qui dovette rimanere fino agli anni Novanta del XVII secolo: nel 1693, infatti, il dipinto è segnalato presso palazzo Borghese a Ripetta, precisamente nella terza stanza del pianterreno dove rimase fino al 1902, anno della vendita della collezione allo Stato italiano.
Una derivazione di piccolo formato della tela, attribuita da Alloisi (1996, pp. 161-162) ad Antonino Alberti detto il Barbalonga, si conserva presso la Galleria Corsini (inv. 267), acquistata dal cardinale Neri Maria Corsini e descritta negli inventari come "favola di Polifemo, e Aci, maniera di Domenichino (Magnanimi 1980, p. 98, n. 80). Un'incisione dell'opera fu eseguita nel 1772 da Domenico Cunego e pubblicata nel 1773 nella Schola Italica picturae di Gavin Hamilton (1773, n. 39).
Antonio Iommelli