Il dipinto, attribuito tradizionalmente dalla critica a Paul Bril, è oggi ritenuto un'opera di bottega. Rappresenta Francesco d'Assisi, immerso nella natura, mentre contempla il mistero divino qui reso reso con un fascio di luce. La scena si sviluppa su due piani collegati tra di loro al centro della scena da un'enorme roccia che obbliga l'occhio a guardare il paesaggio in lontananza e la catena montuosa che si spiega alle sue spalle. Il colore, steso con una pennellata morbida e asciutta, risulta lucido e smaltato grazie alla scelta del supporto in rame.
La provenienza di questo rame è tuttora incerta e ad oggi non si conoscono le esatte circostanze che portarono l'opera in collezione Borghese. Il dipinto, infatti, è documentato con certezza solo a partire dagli elenchi fedecommissari del 1833, poiché il riferimento con l'inventario del 1693, così come con quello del 1790, non è preciso. Come ha suggerito Francesca Cappelletti (2005-2006), è probabile che l'opera possa essere entrata nella collezione di Scipione Borghese in seguito al sequestro dei beni del Cavalier d'Arpino avvenuto nel 1607, nella cui raccolta erano presenti diversi paesaggi, la cui descrizione alquanto sommaria non permette però nè di convalidare nè di respingere tale ipotesi.
Descritto come autore ignoto nel 1833, il dipinto fu attribuito per la prima volta a Paul Bril da Adolfo Venturi (1893), seguito successivamente da Mayer (1910), che datò il rame al 1595, e da Roberto Longhi (1928). Nel 1959 Paola della Pergola confermò l'attribuzione e la datazione dell'opera; parere già espresso da Leo van Puyvelde nel 1950, il quale nonostante l'errata descrizione del supporto elencò il rame tra le opere della prima maniera del pittore fiammingo, collegandolo con i lavori eseguiti da Bril nella cappella del Sacro Cuore, eretta sotto il pontificato di Paolo V nella chiesa del Gesù a Roma. In particolare, lo studioso notava lo stesso trattamento degli alberi, sottolineando che la composizione del colore in tre toni diversi era tipica della pittura fiamminga del Cinquecento. L'attribuzione a Paul Bril, accolta senza riserve da Kristina Herrmann Fiore (2006), è stata contestata da Francesca Cappelletti (2005-2006) che giudica il rame di modesta qualità, eseguita da un seguace del maestro.
La rappresentazione di questo soggetto in un ampio paesaggio, così come la scelta del supporto in rame, rimanda a uno schema tipico della pittura fiamminga, che trova in Italia uno straordinario interprete con il pittore bresciano Girolamo Muziano, i cui paesaggi con eremiti - noti attraverso la fortunata serie di incisioni fatta negli anni Settanta del Cinquecento da Cornelius Cort - furono molto apprezzati dai pittori contemporanei.
Antonio Iommelli