Il dipinto riprende una tipologia di soggetto affrontato più volte dall’artista tramite formule collaudate, soprattutto nella sua prima attività, quando risente stilisticamente dell’influenza di Mariotto Albertinelli, con cui ebbe contatti durante il soggiorno fiorentino ricordati dal Vasari. La prima citazione nota della tavola nei documenti Borghese risale all’inventario fidecommissario del 1833, dove viene citato come di autore ignoto. L’assegnazione al Francucci viene proposta, su base stilistica, a partire dalla fine dell’Ottocento e permane ancora oggi.
Salvator Rosa cm. 81,2 x 71,6 x 6
Roma, collezione Borghese, Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 40. Acquisto dello Stato, 1902.
Figlio dell’orafo Pietro Francucci, nella cui bottega potrebbe aver avuto una primissima formazione, Innocenzo è attestato già nel 1506 a Bologna come apprendista pittore, non è noto presso quale maestro. Secondo quanto riportato da Malvasia (Felsina pittrice [1678], Bologna 1844, I, p. 119), due anni dopo il Francucci sarebbe stato accolto nella bottega di Francesco Francia, dato che tuttavia non trova un riscontro sicuro, mentre è certo che questo periodo fu l’occasione per entrare in contatto con quel clima di “classicismo prematuro” che animava la città emiliana (C. Pedrini, ad vocem Francucci, Innocenzo, in Dizionario biografico degli italiani, L, 1998). Vasari (Le vite… [1568], a cura di G. Milanesi, Firenze 1880, V, p. 185) racconta che il giovane pittore trascorse diversi anni a Firenze “con Mariotto Albertinelli”, il cui contatto è testimoniato da diverse affinità a livello stilistico, evidenti anche nella tavola Borghese.
Il Francucci raffigura la Madonna al centro, con indosso una veste rossa e verde, mentre tiene in braccio il Bambino benedicente. Ai lati sono presenti San Girolamo e San Francesco, quest’ultimo con le mani in preghiera. Sullo sfondo una tenda scura, aperta sulla sinistra, lascia intravedere un paesaggio.
La sola citazione nota del dipinto negli inventari Borghese risale all’elenco fidecommissario del 1833, in cui compare come di autore ignoto. La tavola viene successivamente accostata al Francucci da Piancastelli (1891, p. 476), Venturi (1893, p. 205), Longhi (1928, p. 221), Pallucchini (1945, p. 152), Della Pergola (1955, p. 52, n. 85) e Ferriani (1986, p. 69).
Il quadro, databile al primo quarto del Cinquecento, è raffrontabile con altre opere di soggetto affine conservate presso la Galleria Estense di Modena (Pallucchini cit.) e la Pinacoteca Nazionale di Bologna riconducibili alla mano dell’artista, dedito, soprattutto nella prima attività, alla ripresa di formule collaudate con piccole variazioni (Ferriani cit., p. 63).
Pier Ludovico Puddu