Il dipinto, tradizionalmente riferito a Paul Bril, è oggi ritenuto in maniera più convincente un’opera di bottega. Il soggetto raffigura San Francesco immerso in un ampio paesaggio, secondo uno schema pittorico tipico dell’arte fiamminga del Cinquecento, accolto in Italia attraverso il pittore bresciano Girolamo Muziano. La scelta del supporto in rame, dal tipico effetto lucido e smaltato, rimanda direttamente al contesto nordico entro cui il quadro si inserisce.
Il piccolo dipinto in rame, attualmente conservato nei depositi della Galleria Borghese, è di provenienza incerta e non si conoscono le esatte circostanze che hanno portato al suo ingresso in collezione. L’opera potrebbe provenire dal sequestro perpetrato ai danni del Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari) nel 1607. La confisca scaturì da un’accusa di detenzione illecita di armi e riguardò 105 quadri di proprietà del pittore, che finirono prima nelle mani del papa Paolo V e poi, donati da quest’ultimo, in quelle del cardinale Scipione Borghese. L’inventario redatto in occasione del sequestro, del tutto privo di attribuzioni, contiene più di una voce nella cui descrizione potrebbe essere riconosciuto il dipinto, nessuna delle quali è però abbastanza dettagliata da risultare certamente corrispondente. Per questo motivo non è possibile né convalidare né escludere del tutto la possibilità della sua provenienza dalla bottega del Cavalier d’Arpino.
L’opera è forse identificabile nell’inventario Borghese del 1693, dove si trova citato “un quadro in tavola con un Paese con San Francesco o sia altro Santo in Ginocchioni del No segnato dietro 352 cornice dorata di Paolo Brilli”. La descrizione della scena è corrispondente eccetto che per il supporto indicato, in tavola e non in rame, elemento che lascia un dubbio su questa identificazione.
Nell’inventario fidecommissario del 1833 il dipinto è stato riconosciuto al n. 34 del Gabinetto: “San Francesco nel deserto, di Paolo Brilli, largo palmi 1, oncie 3; alto palmi 1, oncie 10, in Rama”. Qui ritorna l’attribuzione a Paul Bril, già presente nel 1693, che diversi critici hanno ritenuto valida. Alla fine dell’Ottocento sia Giovanni Piancastelli (1891, p. 386) che Adolfo Venturi (1893, p. 139) riprendono il riferimento al maestro fiammingo e successivamente Anton Mayer (1910, p. 76) propone una datazione intorno al 1595. Roberto Longhi (1928, p. 201) condivide questa opinione, mentre Leo Van Puyvelde (1950, p. 74) la considera opera giovanile. Paola Della Pergola (1959, p. 152, n. 213) ravvisa nel quadro una notevole qualità e lo definisce un esempio della migliore produzione pittorica di Bril.
Nel 1990 l’opera viene esposta nella mostra capitolina Rubens e Roma con la medesima attribuzione e la datazione proposta da Mayer al 1595 circa (Magrì 1990, p. 40, n. 4). Più di recente Francesca Cappelletti ha messo in dubbio l’autografia del dipinto e lo ha ricondotto nell’ambito della bottega di Bril (Cappelletti 2006, pp. 178-179, nota 38).
La scena è bipartita secondo uno schema ampiamente sperimentato nell’ambito della produzione brilliana, basato sul contrasto tra la porzione sinistra sviluppata in primo piano, dove appare la figura di San Francesco d’Assisi, e quella destra che si staglia in profondità nel paesaggio. L’effetto risulta acuito dalla diversa tavolozza, da una parte giocata su tonalità brune e calde, dall’altra caratterizzata dalle tinte fredde dell’azzurro con cui sono rese le montagne sullo sfondo e il cielo, quest’ultimo attraversato da un fascio di luce proveniente dall’angolo destro del dipinto e rivolto verso la figura. Il santo è rappresentato in ginocchio, con le braccia aperte in atteggiamento di devozione, e accanto a lui sono visibili gli attributi del crocifisso, del teschio e del libro aperto. Elemento intermedio tra il primo piano e quello di fondo è una grande roccia, più chiara rispetto a quella contro cui campeggia la figura del santo e con una vegetazione molto più ricca, che conduce visivamente alla chiesa in lontananza e al paesaggio che vi continua dietro.
Il tema del santo raffigurato in un paesaggio è caro alla cultura fiamminga del Cinquecento e in Italia trova uno straordinario interprete in Girolamo Muziano, i cui paesaggi con eremiti furono anche tradotti in una fortunata serie di incisioni da Cornelius Cort negli anni Settanta del secolo, elemento che contribuì ad accrescere l’apprezzamento verso questo genere (per un approfondimento Cappelletti, cit., cap. IV).
Pier Ludovico Puddu