Il dipinto, che negli antichi inventari della collezione era riferito a Salviati e a Taddeo Zuccari, solo nel XX secolo fu riconosciuto come opera di Marco Pino, sulla base del confronto con l’affresco di analogo soggetto nell’Oratorio del Gonfalone a Roma. L’apparizione del Cristo, al centro di una mandorla di luce, quasi sospinge in un moto centrifugo gli altri personaggi, sorpresi o spaventati, disposti in pose innaturali e ricercate. La movimentata composizione, connotata dal nitore e dallo splendore dei colori, mostra una pittura ancora piena di reminiscenze michelangiolesche e raffaellesche tipiche del tardo manierismo romano.
Collezione Borghese, ante 1650 (Manilli, pp. 82, 112); inv. 1693, Stanza I, n. 327; inv. 1790, Stanza X, n.59; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 40. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto raffigura la scena della Resurrezione di Cristo, che pur essendo uno dei temi cruciali della religione cristiana, non ha una fonte testuale precisa nelle sacre scritture, ma vive solo di una tradizione iconografica.
In assenza di una descrizione puntuale, il tema fu affrontato nelle serie bibliche con altri episodi quali il “Noli me tangere” o “Le pie donne al sepolcro”, ma fu soprattutto la cultura figurativa italiana tra Quattro e Cinquecento ad inventare un soggetto devozionale con l’immagine del Cristo che esce dal sepolcro, ibridandolo a volte con l’immagine dell’Ascensione con la mandorla di luce ovvero con Cristo al limbo trionfatore con un vessillo. Unico elemento del Nuovo testamento è il riferimento di Matteo (MT.27, 62-66) ai soldati messi da Pilato a guardia del sepolcro, che ritornano in questo quadro sia addormentati che sorpresi e spaventati. In questo caso Marco Pino sceglie di raffigurare l’apparizione di Cristo entro una mandorla di luce sospesa sul sepolcro, che suscita una reazione di generale sgomento e terrore nei soldati risvegliati da un tale evento portentoso.
Il dipinto risulta presente in collezione Borghese già a partire dal 1650, registrato da Jacopo Manilli, che ricordava «un quadro della Risurrezzione» nella Stanza del Gladiatore, «stimato del Salviati» e, al secondo piano dell’edificio, una «Risurrezione di Christo, è disegno di Michelagnolo, colorito da altri», entrambi potenzialmente identificabili con quello in esame. Nell’inventario del 1693 ritorna l’accenno a «un quadro tela d’Imperatore con la resurretione di N.ro Sig.re […] del N. 327 di Cecchini Salviati», stavolta sicuramente identificabile con quello di Pino. Paola Della Pergola (1959) indicava infatti come ancora visibile, nell’angolo in basso a sinistra dell’opera qui in analisi, proprio il numero 327. L’attribuzione a Salviati, che sebbene errata era giustificata da un’effettiva consonanza stilistica, fu mutata nei successivi inventari borghesiani del 1790 e del Fidecommesso del 1833 in favore di Taddeo Zuccari, nome ‘corretto’ da Adolfo Venturi nel 1893 con quello del fratello di quest’ultimo, Federico. Fu solo Herman Voss, nel 1920, a proporre di attribuire il quadro a Marco Pino, alla luce del confronto stringente con l’affresco di analogo soggetto dell’Oratorio del Gonfalone. L’unica contestazione a questa attribuzione è venuta più tardi da Leo Van Puyvelde, che ha invece accostato la tavola ai modi del pittore fiammingo naturalizzato bolognese Denijs Calvaert (1540-1619).
L’osservazione del dipinto conferma la presenza di componenti stilistiche che lo avvicinano agli artisti i cui nomi, non a caso, sono quelli sopra citati. Tanto Francesco Salviati con la sua Resurrezione romana di Santa Maria dell’Anima (1550 ca.), quanto Taddeo e Federico Zuccari, propongono infatti una revisione del michelangiolismo che ritorna nell’affresco di analogo soggetto realizzato da Pino per l’Oratorio del Gonfalone a Roma (1569), il quale attesta però anche una reminiscenza del primo soggiorno napoletano dell’artista. Se le affinità stilistiche e compositive tra l’affresco e la tavola Borghese appaiono evidenti, entrambi i lavori palesano un taglio compositivo piuttosto ardito, con la scena che si dispiega su un piano quasi inclinato, divisa come in due parti dell’apparizione del Cristo, teso in uno slancio levitante nell’aria. Nel quadro però il nitore e lo splendore dei colori definiscono una composizione meno confusa e accalcata rispetto alla versione affrescata. Il Cristo appare isolato in una mandorla di luce, mentre il gruppo dei soldati sembra come ‘esplodere’ in direzioni opposte innanzi a lui, in una corsa scomposta che lascia vuoto il centro della scena, relegando in posizioni insolite i personaggi in fuga. In primo piano a sinistra compaiono solo la testa di un vecchio barbuto e il busto scorciato di un giovane con un bastone, forse l’asta di una lancia. Sul lato destro un guerriero in fuga è completamente rivolto con il capo all’indietro, quasi travolgendo un compagno disteso a terra fra le sue gambe, in una posa che riprende quella dell’Eliodoro di Raffaello nelle Stanze Vaticane. Ai lati del sarcofago centrale è disposto, a sinistra, un gruppo di figure di spalle, con un guerriero a terra, chino sul proprio scudo, che sembra riecheggiare in controparte il celebre prototipo plastico del cosiddetto Galata morente, noto nella copia marmorea romana di età imperiale (I secolo a. C.) conservata ai Musei Capitolini, tratta da un originale greco del III secolo a. C. Come già rilevato dalla scrivente in altra sede (Calzona 2023, pp. 16-18), tale rimando iconografico potrebbe suggerire che il marmo romano, menzionato per la prima volta negli inventari Ludovisi del 1623 e a lungo creduto oggetto di un ritrovamento coevo, avvenuto in occasione dei lavori di costruzione della Villa Ludovisi, fosse in realtà stato scoperto ben prima, come documenterebbe del resto la possibile ripresa che ne fece Caravaggio nel San Giovanni Battista della Galleria Corsini di Roma (1604-1606 circa) e, con posa invertita e visione da dietro, nella figura maschile disposta in basso a sinistra nella monumentale tela napoletana con le Sette Opere di Misericordia (1606-1607 circa; cfr. Leone, 2015, pp. 27-28).
Tornando al quadro, proprio la schiena del soldato a terra ispirato al Galata, così come quella della figura maschile che lo scavalca correndo, manifestano inoltre, rispetto alle linee misurate del modello scultoreo antico, un chiaro rimando alle volumetrie muscolari e alle torsioni esasperate e guizzanti del Michelangelo Vaticano, tanto che l’uomo in corsa corrisponde in modo puntuale al giovane di spalle che si scorge sul margine sinistro dell’affresco con la Conversione di Saulo nella Cappella Paolina (1542-1545 ca.). Sul sarcofago antico da cui fuoriesce il Cristo risorto è rappresentata, infine, la scena biblica di Giona inghiottito da un grosso pesce, nella cui pancia egli rimase tre giorni prima di essere risputato sulla riva. Si trattava di un episodio individuato dallo stesso Gesù (Matteo 12,40) come prefigurazione della sua morte e resurrezione, e non è dunque da considerarsi un caso se Pino ne ripropose le sembianze, in forma monumentale, anche al di sopra della Resurrezione del Gonfalone. Sebbene simile simbologia sia stata sempre molto presente nell’iconografia cristiana, la riproposizione di un medesimo abbinamento di soggetti potrebbe suggerire una possibile contiguità tra le due opere, non solo in termini cronologici, ma anche di committenza. Nessuna delle altre “Resurrezioni” dipinte dal senese, né quella di Santa Trofimena a Minori (SA), datata agli anni settanta, né quella di Santa Maria di Portosalvo a Napoli, né quella di Santa Maria degli Incurabili del 1570, raggiungono il livello dei due esemplari romani. Da questi confronti si deduce quindi che la Resurrezione della Galleria Borghese appartenga a una fase stilistica precedente al secondo soggiorno napoletano dell’artista, manifestando una pittura ancora piena di reminiscenze michelangiolesche e raffaellesche tipiche del tardo manierismo nell’Urbe e caratterizzandosi per forme potenti e una composizione chiara e ben definita; se ne può quindi ipotizzare un’esecuzione per qualche committente romano in un momento prossimo all’affresco del Gonfalone, forse addirittura antecedente.
Lucia Calzona