I tratti giovanili del volto, lo sguardo fiero e le labbra serrate individuano la testa come un ritratto dell’imperatore Caligola, passato alla storia per le sue gesta crudeli e insensate. Se i tratti del volto sono ben definiti e identificabili, una minore attenzione è stata prestata dall’anonimo autore alla capigliatura, nella quale le ciocche risultano indefinite. Il busto in alabastro riproduce una corazza anatomica e un paludamento raccolto e appuntato sulla spalla sinistra da una fibula.
Il busto – di cui non è noto l’autore – fa parte di una serie di 16 provenienti dal palazzo Borghese di Campo Marzio, dove erano inseriti in una decorazione a stucco di Cosimo Fancelli nella sala degli specchi, ed esposti nella Villa Pinciana sicuramente dal 1832
Il busto ritrae Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico, il terzo imperatore romano, appartenente alla dinastia Giulio-Claudia, universalmente noto con il soprannome di Caligola, che regnò dal 37 al 41, anno della sua uccisione. Nonostante la damnatio memoriae di cui fu oggetto la sua immagine, rimangono alcuni ritratti dell’imperatore con i quali il presente busto ha elementi in comune.
La capigliatura, qui in alcuni punti appena sbozzata, riproduce sommariamente sulla fronte quella adottata da Augusto e usata dai suoi familiari e successori per individuare la loro appartenenza alla dinastia Giulio Claudia. Nella parte posteriore i capelli risultano – in contrasto con i modelli antichi – particolarmente lunghi sulla nuca. Lo sguardo diretto e fiero e le labbra piccole e serrate suggeriscono la personalità decisa, e crudele, per cui l’imperatore è noto, soprattutto per le tinte fosche con cui è stato descritto da Svetonio.
Il busto presenta il paludamento raccolto sulla spalla sinistra, dove è fissato con una fibula circolare (non ricavata dallo stesso blocco d’alabastro), indossa una corazza anatomica con terminazioni frangiate sopra la spalla, e la toga. L’alabastro presenta al centro della corazza una crepa.
L’opera fa parte di un insieme di sedici busti in porfido e alabastro provenienti dal Palazzo Borghese in Campo Marzio: riproducenti i Dodici Cesari narrati da Svetonio con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio e di un altro Tito, erano collocati all’interno delle nicchie della galleria e circondati da una decorazione con rilievi in stucco raffiguranti episodi salienti della vita di ciascuno e personificazioni delle rispettive virtù, eseguita da Cosimo Fancelli tra il 1674 e il 1676 (Hibbard 1962). In tale collocazione la serie è documentata fino al 1830 (Nibby, p. 360), per poi figurare tra le opere esposte nella sala IV della Villa Pinciana nel 1832 (Nibby 1832, p. 96), con una diversa composizione e l’aggiunta di un altro Vespasiano, eseguito da Tommaso Fedeli nel 1619, proveniente dalla sala del Gladiatore.
Stando ai documenti conservati nell’Archivio Borghese la serie era composta, come detto, dai “Dodici Cesari” con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio e di un altro Tito (ASV, AB, b. 5688, n. 15, pubblicati in Hibbard 1962, appendice, doc. I, pp. 19-20). Nel 1830 Nibby li identifica– ancora in Campo Marzio – come “16 busti con teste di porfido, rappresentanti i 12 Cesari e 4 consoli”, e due anni dopo quando ormai sono esposti lungo le pareti della sala IV, li elenca come Traiano, Galba, Claudio, Otone, Vespasiano (2 esemplari), Scipione Africano, Agrippa, Augusto, Vitellio (2 esemplari), Tito, Nerone, Cicerone, Domiziano, Vespasiano, Caligola e Tiberio. Se l’ultima citazione – comprendente anche il secondo Vespasiano – è quella che corrisponde allo stato attuale della serie (e trova conferma nell’Inventario Fidecommissario del 1833), resta difficile comprendere che fine abbiano fatto i ritratti di Cesare, Tito e Nerva, presenti nel 1674-76 e non più rintracciabili nella serie attuale, chi fosse il quarto console indicato da Nibby nel 1830, dal momento che oggi ve ne sono solo tre (Agrippa, Cicerone e Scipione Africano) e quale sia la provenienza di questi ultimi. Appare quindi ipotizzabile che i busti utilizzati nella galleria – già presenti nel Palazzo Borghese – non corrispondessero ai personaggi previsti nel programma iconografico della volta e che questa difformità abbia in seguito complicato l’identificazione dei ritratti. A sostegno di questa ipotesi è anche la datazione dell’insieme, che la critica è concorde nel ritenere eseguito contemporaneamente nel XVII secolo (Faldi 1954, pp. 16-17; Della Pergola, 1974; Moreno, C. Stefani,2000, p. 129; Del Bufalo 2018, p. 116).
Sonja Felici