Il busto in porfido e alabastro riproduce le fattezze di Marco Tullio Cicerone, che vi risulta ritratto in età matura. Il volto solcato da rughe e lo sguardo concentrato ben aderiscono alla personalità dell’oratore così come ci è nota dai racconti dei contemporanei e dall’iconografia antica. All’attenta caratterizzazione del volto non corrisponde una altrettanto precisa definizione del busto, che presenta incertezze nelle pieghe della toga.
Il ritratto di Cicerone risulta documentato per la prima volta nel 1832 nella sala IV della Villa Pinciana, dove è esposto insieme ad altri sedici busti di imperatori e consoli romani eseguiti con gli stessi materiali e di misure simili a formare un’unica serie. Per tutti la critica ha proposto una datazione al XVII secolo.
Il filosofo e oratore romano Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) è rappresentato con la testa rivolta a sinistra. I capelli, pettinati verso destra, lasciano ampiamente scoperta la fronte solcata da rughe e con le sopracciglia contratte. I segni del tempo e dell’espressione sono evidenti anche ai lati degli occhi e nelle guance. Ne risulta il ritratto di un uomo di età matura e dalla forte personalità, perfettamente corrispondente alla figura storica di Cicerone e alle varie raffigurazioni che ce ne sono giunte dall’antichità.
Il busto in alabastro riproduce una toga contabulata, ossia indossata con il lembo anteriore avvolto intorno al torace piuttosto che lasciato scendere verso il basso. Una scelta puramente evocativa dell’antico e priva di accuratezza filologica, dal momento che si tratta di un indumento in uso tra i romani solo in epoca tardo imperiale. Sulla spalla destra è presente un’incisione rettilinea poco profonda non riferibile in alcun modo all’andamento del panneggio.
L’opera è esposta nella sala IV della Galleria Borghese insieme ad altri 15 busti in porfido e alabastro provenienti dal Palazzo di famiglia in Campo Marzio, dove erano collocati nella Galleria all’interno di una decorazione in stucco eseguita da Cosimo Fancelli tra il 1674 e il 1676. Stando ai documenti conservati nell’Archivio Borghese la serie era composta dai “Dodici Cesari” con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio e di un altro Tito (ASV, AB, b. 5688, n. 15, pubblicati in Hibbard 1962, appendice, doc. I, pp. 19-20). Nel 1830 Nibby li identifica– ancora in Campo Marzio – come “16 busti con teste di porfido, rappresentanti i 12 Cesari e 4 consoli”, e due anni dopo, quando ormai sono esposti lungo le pareti della sala IV, li elenca come Traiano, Galba, Claudio, Otone, Vespasiano (2 esemplari), Scipione Africano, Agrippa, Augusto, Vitellio (2 esemplari), Tito, Nerone, Cicerone, Domiziano, Vespasiano, Caligola e Tiberio. Se l’ultima citazione – comprendente anche un secondo Vespasiano, eseguito da Tommaso Fedeli nel 1619, proveniente dalla sala del Gladiatore – è quella che corrisponde allo stato attuale della serie (e trova conferma nell’Inventario Fidecommissario del 1833), resta difficile determinare che fine abbiano fatto i ritratti di Cesare, Tito e Nerva, presenti nel 1674-76 e non più rintracciabili nella serie attuale, chi fosse il quarto console indicato da Nibby nel 1830, dal momento che oggi ve ne sono solo tre (Agrippa, Cicerone e Scipione Africano) e quale sia la provenienza di questi ultimi. Appare quindi ipotizzabile che i busti utilizzati nella galleria – già presenti nel Palazzo Borghese – non corrispondessero ai personaggi previsti nel programma iconografico della volta e che da questa difformità possano essere derivati i successivi errori di identificazione delle fonti. In tale scenario il busto di Cicerone (o quello di Scipione Africano), ipotizza Hibbard, potrebbe essere stato utilizzato al posto di quello di Nerva (1962, p. 11 n. 12). In accordo con queste possibili sostituzioni è anche la datazione dell’insieme, che la critica è concorde nel ritenere eseguito contemporaneamente, nel XVII secolo (Faldi 1954, pp. 16-17; Della Pergola, 1974; Moreno, C. Stefani,2000, p. 129; Del Bufalo 2018, p. 116).
Sonja Felici