Proviene dalla collezione romana del cardinale Girolamo Bernerio, e giunge in un momento imprecisato nella raccolta Borghese, dove compare nel 1693. L’opera, che presenta i caratteri stilistici della stagione più tarda dell’artista, raffigura un personaggio (alternativamente considerato San Domenico, San Vincenzo Ferrer o frate domenicano) con il consueto abito dei frati predicatori, tonaca bianca e mantello nero. Il raggio luminoso che investe la tonaca rischiara la mano atteggiata in un gesto dal carattere simbolico. Il volto è un esempio della superba ritrattistica di Tiziano, che negli ultimi anni della sua vita sperimenta, con novità tecnica assoluta, uno stile pittorico essenziale, caratterizzato da rapide pennellate dal tocco quasi impressionistico.
Cornice cinquecentesca, probabilmente non originale, visti gli interventi di nuovo dimensionamento del dipinto, leggermente ampliato nel corso dell’800
125,5 x 108,5 x 9 cm
Restauro 1958
(?) Cardinale Girolamo Bernerio, agosto 1611 (Schütze, 1999, p. 261, n. 28); Collezione Borghese, Inventario 1693, Stanza V dell’Udienza, n. 268 (Della Pergola, 1964, 28, p. 455); Nota delli Quadri dell’appartamento terreno di S.E. il sig. Pnpe Borghese, quinta stanza, ca. 1700: “ritratto di un Domenicano del Tiziano” (De Rinaldis, 1936, III, n. 3, p. 201); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 22; Piancastelli, ms, 1891, p. 14. Acquisto dello Stato, 1902.
a sinistra in basso TICIANUS (scritta probabilmente non autografa) in colore bianco, nell’angolo in basso a sinistra n. 120.
Del dipinto si hanno notizie solo a partire dal primo Seicento, quando è già a Roma. Ad esso viene infatti ormai riferita con sicurezza la citazione: “un quadro di S. Domenico con cornice dorata del Titiano”, tratta dall’inventario della collezione di Girolamo Bernerio (o Bernieri) redatto da Carlo Saraceni nell’agosto del 1611, a pochi giorni dalla morte del Cardinal d’Ascoli, come Bernerio era noto (Schütze, 1999, p. 261, n. 28), il quale potrebbe averla reperita sul mercato romano – che tra fine Cinquecento e primi Seicento registra un grande interesse per le opere di Tiziano – oppure direttamente a Venezia, dove si era recato nel 1598 proseguendo il viaggio a Ferrara al seguito di Clemente VIII. Il fatto che nella quadreria di Bernerio, messa pubblicamente in vendita neanche un mese più tardi dalla data dell’inventario, figurino un certo nucleo di opere poi confluite nella collezione Borghese lascia presupporre che Scipione le possa aver acquisite proprio in quell’occasione. Il dipinto non è tuttavia citato nelle prime testimonianze documentarie e inventariali legate alla collezione Borghese, forse perché, almeno fino alla fine dell’Ottocento, fu sempre nel palazzo di città. Non lo citano infatti né Manilli, né Montelatici (che si riferiscono alla villa fuori Porta Pinciana), mentre compare nell’inventario del 1693: qui, come “Santo Domenicano”, risulta ubicato nella sala (V) dell’Udienza, e vi rimane per tutto il Settecento, come anche per buona parte del secolo successivo. Nel 1833 è registrato genericamente come dipinto di scuola veneziana, ma l’autografia tizianesca è stata raramente messa in dubbio (Wethey). Anzi: a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e fino al secondo dopoguerra l’opera, sempre collocata nella fase tarda della produzione tizianesca, gode di una certa fortuna critica. Nel suo soggiorno romano sul finire degli anni Cinquanta dell’Ottocento, Giovan Battista Cavalcaselle annota poche opere della collezione Borghese che potrebbe aver visto tutte nel palazzo: il “San Domenico”, come lo titola, è una di queste (Cavalcaselle, 1859, c. 47v). Ne trae uno schizzo arricchito da annotazioni ai margini, che confluiscono nella monografia realizzata in collaborazione con Archer Crowe: dell’opera vengono magnificati il tocco del pennello e un fare grandioso, e si avanza l’ipotesi, ripresa letteralmente da Venturi (1893), che si tratti di un ritratto “cavato dal vero” (Cavalcaselle - Crowe, 1878). Non è un caso che già Morelli richiami a proposito del dipinto, che ascrive al “vecchio Tiziano”, una citazione di Ridolfi (1648) secondo la quale il pittore avrebbe realizzato un ritratto “del suo Confessore, dell’Ordine de’ Predicatori”, aggiungendo che “era tra le cose del Gamberato”. L’indicazione, che non trova allo stato attuale delle ricerche alcun fondamento, viene replicata da Giulio Cantalamessa nelle note manoscritte al catalogo di Venturi (1907, n. 188), nelle quali, oltre a indugiare sulla qualità della pittura, tutta fondata “sul tocco”, scrive del viso, “suggello di una individualità prescelta e prefissa, ossia di un uomo realmente vissuto”. Il dipinto è stato infatti diversamente interpretato come San Domenico (così nelle citazioni inventariali Borghese), o come, appunto, il confessore domenicano di Tiziano, o ancora, a partire dagli anni Trenta, come San Vincenzo Ferrer: identificazioni che trovano la loro sostanza nell’evidenziare sempre il carattere fermo del personaggio, la sua humilitas (Herrmann Fiore 2007), l’essenzialità della gamma cromatica – ridotta al bianco e nero e all’ocra scuro del fondo – e la sapiente, e così moderna, alternanza tra luci e ombre. Sono state queste le considerazioni che hanno fatto anche ipotizzare un possibile ambito di committenza nel convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo, per il quale Tiziano avrebbe dipinto anche un Cenacolo non più esistente (Pallucchini, 1969; Gentili, 2012): certo è che, almeno a quanto è noto, Tiziano realizza in quest’unica occasione un soggetto di questo tipo, in cui è ben evidenziato il gesto retorico, funzionale anche all’identificazione del santo (in ragione dell’appena percepibile aureola) di cui un personaggio reale veste i panni, dell’indice puntato verso l’alto. Non è un caso che questa figura si sia avvicinata al San Giovani Battista ora alle Gallerie dell’Accademia: come lui utilizza il codice del retore, e del predicatore; come lui è una figura forte della sua umiltà e del suo vigore morale. A differenza di lui, però, nel realizzare un dipinto “in economia e libertà” (Gentili, 2012) il vecchio Tiziano utilizza una tavolozza essenziale: azzera il paesaggio e lo sfondo, si affida, facendo emergere in parte la preparazione, a una sorta di monocromia bruno rossiccia per concentrarsi su un volto carico di senso, incorniciato dal cappuccio di un manto nero che fa risaltare i tratti ben delineati di un uomo consapevole della propria fede.
Maria Giovanna Sarti