Il busto, appartenente a una serie di sedici inseriti tra il 1674 e il 1676 da Cosimo Fancelli nella decorazione della galleria degli specchi del Palazzo Borghese, riproduce le fattezze dell’imperatore Tiberio, che succedette ad Augusto nel 14. Il volto è giovanile – come era consuetudine nella ritrattistica di Tiberio, che pure divenne imperatore a 56 anni – e presenta la capigliatura tipica della dinastia Giulio Claudia, con ciocche allineate irregolarmente sulla fronte, grandi occhi e lineamenti piuttosto regolari. Il busto è loricato, con due nastri a fissare gli spallacci.
Trasferito nel quarto decennio dell’Ottocento nella Villa Pinciana, il busto è da allora esposto nella sala IV. Datato al XVII secolo dalla critica, non ne è noto l’autore.
Tiberio Giulio Cesare Augusto, il secondo imperatore di Roma, che regnò dal 14 al 37, è ritratto in età giovanile. Ha il viso rivolto a sinistra, incorniciato da una capigliatura piuttosto compatta che scende sulla fronte in ciocche ripartite al centro nel movimento “a tenaglia” e “a forbice” derivato dai ritratti di Augusto e solcato da poche rughe d’espressione. Gli occhi sono grandi e hanno le palpebre ben delineate, il naso è aquilino e il mento un po’ sfuggente. Complessivamente il ritratto ripropone la fisionomia con cui era tradizionalmente raffigurato l’imperatore, che ne riproduceva le fattezze all’epoca dell’adozione da parte di Augusto, e che era nota già nel Cinquecento attraverso alcuni esemplari antichi, tra cui è da annoverarsi quello appartenuto alla Collezione Grimani.
Tiberio indossa la corazza anatomica, con gli spallacci fissati all’estremità con un nastro annodato, sotto la quale è visibile la toga. Nel braccio sinistro è ben visibile un intervento di restauro, con un’integrazione dell’alabastro in corrispondenza dell’ascella.
L’opera fa parte di una serie di sedici busti in porfido e alabastro provenienti dal Palazzo Borghese in Campo Marzio: riproducenti i Dodici Cesari narrati da Svetonio con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio e di un altro Tito, erano collocati all’interno delle nicchie della galleria e circondati da una decorazione con rilievi in stucco raffiguranti episodi salienti della vita di ciascuno e personificazioni delle rispettive virtù, eseguita da Cosimo Fancelli tra il 1674 e il 1676 (Hibbard 1962). In tale collocazione la serie è documentata fino al 1830 (Nibby, p. 360), per poi figurare tra le opere esposte nella sala IV della Villa Pinciana nel 1832 (Nibby 1832, p. 96), con una diversa composizione e l’aggiunta di un altro Vespasiano, eseguito da Tommaso Fedeli nel 1619, proveniente dalla sala del Gladiatore.
Stando ai documenti conservati nell’Archivio Borghese la serie era composta, come detto, dai “Dodici Cesari” con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio e di un altro Tito (ASV, AB, b. 5688, n. 15, pubblicati in Hibbard 1962, appendice, doc. I, pp. 19-20). Nel 1830 Nibby li identifica – ancora in Campo Marzio – come “16 busti con teste di porfido, rappresentanti i 12 Cesari e 4 consoli”, e due anni dopo quando ormai sono esposti lungo le pareti della sala IV, li elenca come Traiano, Galba, Claudio, Otone, Vespasiano (2 esemplari), Scipione Africano, Agrippa, Augusto, Vitellio (2 esemplari), Tito, Nerone, Cicerone, Domiziano, Vespasiano, Caligola e Tiberio. Se l’ultima citazione – comprendente anche il secondo Vespasiano di Tommaso Fedeli – è quella che corrisponde allo stato attuale della serie (e trova conferma nell’Inventario Fidecommissario del 1833), resta difficile comprendere che fine abbiano fatto i ritratti di Cesare, Tito e Nerva, presenti nel 1674-76 e non più rintracciabili nella serie attuale, chi fosse il quarto console indicato da Nibby nel 1830, dal momento che oggi ve ne sono solo tre (Agrippa, Cicerone e Scipione Africano) e quale sia la provenienza di questi ultimi. Appare quindi ipotizzabile che i busti utilizzati nella galleria – già presenti nel Palazzo Borghese – non corrispondessero ai personaggi previsti nel programma iconografico della volta e che questa difformità abbia in seguito complicato l’identificazione dei ritratti. A sostegno di questa ipotesi è anche la datazione dell’insieme, che la critica è concorde nel ritenere eseguito contemporaneamentenel XVII secolo (Faldi 1954, pp. 16-17; Della Pergola, 1974; Moreno, C. Stefani,2000, p. 129; Del Bufalo 2018, p. 116).
Sonja Felici