Raffigurato in posizione frontale, l’imperatore Tito Flavio Vespasiano è ritratto con i tratti fisiognomici ed espressivi che lo rendono immediatamente riconoscibile: la testa massiccia e calva, gli occhi piccoli e ravvicinati e con le palpebre cadenti, le labbra sottili e il mento prominente, un’espressione al contempo benevola e volitiva. Il busto è avvolto nell’ampio mantello che copre quasi del tutto la sottostante corazza, di cui lascia intravedere solo lo spallaccio destro.
Inserito – insieme ad altri 15 busti tutti in porfido ed alabastro – da Cosimo Fancelli tra il 1674 e il 1676 nella decorazione della galleria degli specchi nel Palazzo di Campo Marzio, è datato dalla critica all’inizio del secolo. Dal 1832 è documentato nella sala IV della Villa Pinciana.
L'imperatore Vespasiano, iniziatore della dinastia Flavia, è ritratto in posizione frontale avvolto in un voluminoso e morbido paludamentum appuntato sulla spalla destra da una fibula circolare, dal quale emergono lo spallaccio della corazza e la manica della veste sottostante.
Il volto riproduce piuttosto fedelmente i tratti bonari e volitivi dell’imperatore, noti soprattutto attraverso la colossale testa rinvenuta alla metà del XVI secolo nel tempio a lui dedicato nel foro romano e appartenute alla collezione Farnese. La testa, massiccia e dalle grandi orecchie, è calva, la fronte è solcata da profonde rughe, gli occhi sono piccoli e ravvicinati e hanno le palpebre cadenti, le labbra sono sottili e il mento prominente. Tali caratteristiche nei ritratti prodotti in epoca Flavia erano espressione di una nuova tendenza realistica e contribuivano a definire il personaggio come uomo di grande esperienza: le rughe a “zampa di gallina” esprimevano l’esperienza, mentre la contrazione dei muscoli sulla fronte era indice di concentrazione e determinazione (Rosso, p. 403). Nel presente busto le rughe del volto di Vespasiano sono state tradotte in pieghe che increspano la superficie del porfido, sottolineate dai riflessi della luce, ma non ne plasmano il volto esprimendone la personalità come avveniva nei modelli antichi. Sul collo le pieghe della pelle e il rilievo dei tendini sono resi in maniera eminentemente grafica e sono privi di volumetria.
L’opera fa parte di una serie di sedici busti in porfido e alabastro provenienti dal Palazzo Borghese in Campo Marzio: riproducenti i Dodici Cesari narrati da Svetonio con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio e di un altro Tito, erano collocati all’interno delle nicchie della galleria e circondati da una decorazione con rilievi in stucco raffiguranti episodi salienti della vita di ciascuno e personificazioni delle rispettive virtù, eseguita da Cosimo Fancelli tra il 1674 e il 1676 (Hibbard 1962).In tale collocazione la serie è documentata fino al 1830 (Nibby, p. 360), per poi figurare tra le opere esposte nella sala IV della Villa Pinciana nel 1832 (Nibby 1832, p. 96), con una diversa composizione e l’aggiunta di un altro Vespasiano, eseguito da Tommaso Fedeli nel 1619, proveniente dalla sala del Gladiatore.
Stando ai documenti conservati nell’Archivio Borghese la serie era composta, come detto, dai “Dodici Cesari” con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio e di un altro Tito (ASV, AB, b. 5688, n. 15, pubblicati in Hibbard 1962, appendice, doc. I, pp. 19-20). Nel 1830 Nibby li identifica– ancora in Campo Marzio – come “16 busti con teste di porfido, rappresentanti i 12 Cesari e 4 consoli”, e due anni dopo quando ormai sono esposti lungo le pareti della sala IV, li elenca come Traiano, Galba, Claudio, Otone, Vespasiano (2 esemplari), Scipione Africano, Agrippa, Augusto, Vitellio (2 esemplari), Tito, Nerone, Cicerone, Domiziano, Vespasiano, Caligola e Tiberio. Se l’ultima citazione – comprendente anche un secondo Vespasiano, eseguito da Tommaso Fedeli nel 1619, proveniente dalla sala del Gladiatore – è quella che corrisponde allo stato attuale della serie (e trova conferma nell’Inventario Fidecommissario del 1833), resta difficile comprendere che fine abbiano fatto i ritratti di Cesare, Tito e Nerva, presenti nel 1674-76 e non più rintracciabili nella serie attuale, chi fosse il quarto console indicato da Nibby nel 1830, dal momento che oggi ve ne sono solo tre (Agrippa, Cicerone e Scipione Africano) e quale sia la provenienza di questi ultimi. Appare quindi ipotizzabile che i busti utilizzati nella galleria – già presenti nel Palazzo Borghese – non corrispondessero ai personaggi previsti nel programma iconografico della volta e che questa difformità abbia in seguito complicato l’identificazione dei ritratti. A sostegno di questa ipotesi è anche la datazione dell’insieme, che la critica è concorde nel ritenere eseguito contemporaneamente nel XVII secolo (Faldi 1954, pp. 16-17; Della Pergola, 1974; Moreno, C. Stefani,2000, p. 129; Del Bufalo 2018, p. 116).
Sonja Felici