Attestato in collezione Borghese a partire dagli elenchi fidecommissari del 1833, questo ritratto sembra appartenere all'ambiente cremonese, eseguito con buona probabilità intorno alla metà del XVI secolo. La donna, non più in giovane età, è riccamente abbigliata, qui ritratta con una leggera camicia legata sotto il collo, il mantello e la cuffia. Sullo sfondo poco visibile, è un cratere antico, elemento che indica l’appartenenza della donna a un ceto sociale alto.
Salvator Rosa (cm 77,5 x 67,5 x 7)
Roma, collezione Borghese, 1833 (Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 39). Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questo dipinto resta ancora ignota. L'opera, infatti, è documentata con certezza tra i beni della raccolta pinciana solo a partire dal 1833, descritta dall'estensore degli elenchi fedecommissari come 'maniera di Tiziano'.
Attribuita da Adolfo Venturi (1893) a Bonifacio de' Pitati, tale nome, assieme a quello di Giovanni Antonio Fasolo (cfr. Della Pergola 1955), fu scartato da Roberto Longhi (1928) che, dal canto suo, preferì parlare di un anonimo pittore cremonese, attivo intorno alla metà del XVI secolo.
Nel 1955, rifiutando i suggerimenti dei suoi colleghi, Paola della Pergola (1955) pubblicò il ritratto come 'Ignoto sec. XVI', indicazione ripresa grossomodo da Kristina Herrmann Fiore (2006), secondo cui si tratterebbe di un artista dell'Italia settentrionale.
Di certo questo dipinto, ad oggi mai restaurato, presenta una qualità più che modesta, il cui autore sembra al corrente delle istanze pittoriche della cultura veneta della metà del XVI secolo, sensibile a quei modi che nel giro di una generazione condurranno a Gervasio Gatti detto il Sojaro. Quest'anonima nobildonna, infatti, nella sua fissità e per quella sorta di realismo domestico, richiama alcune severe figure eseguite a Cremona alla metà del Cinquecento, in bilico tra la maniera romano-padana e quella energica ventata moroniana proveniente da Brescia.
Antonio Iommelli