La figura femminile veste una lunga tunica sulla quale è adagiato il mantello, l’himation, avvolto intorno al corpo in un doppio giro. Il panneggio, caratterizzato da un risvolto obliquo trattenuto sulla spalla destra che ricade in fitte pieghe verticali dall’alto rilievo, rievoca modelli arcaici del V secolo a.C. Tale iconografia si ritrova comunemente impiegata nella scultura romana per la raffigurazione delle sacerdotesse di Iside.
Proveniente dalla Collezione Ceoli, venduta nel 1607 alla famiglia Borghese, la scultura è restaurata nel 1828 dallo scultore Giuseppe Boschi, il quale aggiunge gli elementi in metallo, caratteristici della dea Iside: il fiore di loto sul capo, il sistro nella mano destra e la situla, una brocca, in quella sinistra. Esposta nel 1832 nella sala VII, la statua è da inquadrare, in base alle osservazioni stilistiche, nella prima età imperiale.
Proveniente dalla collezione Ceoli, ceduta al Cardinale Scipione Borghese nel 1607 (Gallottini 1995, p. 63, tav. 27.1; p. 79, n. 39, tav. 39). Nella collezione Borghese è ricordata nella Quarta Nota del 1828 tra le statue scelte per essere restaurate e inserite nelle sale (Moreno, Sforzini 1987, p. 359); nel 1832 è collocata nella sala VII (Nibby 1832, pp. 118-119). Inventario Fidecommissario Borghese 1833, C., p. 53, n. 169. Acquisto dello Stato, 1902.
Tra la fine del 1500 e gli inizi del 1600 la scultura è testimoniata presso la famiglia Ceoli da un disegno di Andrea Boscoli, conservato al Louvre, come indicato dalla didascalia “del Sig. Tib. ceuoli in strada giulia” (Parigi, Louvre, Cabinet des Dessins, inv. 12305: Gallottini 1995, p. 63, tav. 27.1). La collezione di sculture antiche era stata ceduta a Tiberio Ceoli da Giulio Ricci nel 1576 insieme al Palazzo di via Giulia, costruito da Antonio da Sangallo. La Gallottini nel 1995 ipotizza, a ragion veduta, che la statua muliebre facesse già parte della collezione Ricci (pp. 79-80, n. 39, tav. 39). Nel 1607 il Cardinale Scipione Borghese acquista da Lelio Ceoli l’intera collezione per “7 mila scudi” (de Lachenal 1982, pp. 52-55). Nella Villa Pinciana è infatti ritratta pochi anni più tardi in un’incisione di Philippe Thomassin con l’indicazione: in aedibus Card. Burghesij (Gallottini 1995, pp. 79-80, n. 39, tav. 39). La de Lachenal, nel suo accurato studio sulla collezione Borghese del 1982, individua, invece, nella stampa del Thomassin uno dei tre colossi donati da Papa Paolo V nel 1608 al nipote Giovambattista Borghese ed esposti ancor oggi nella Loggia del Palazzo di famiglia in Campo Marzio (pp. 55-58, fig. 21).
Le due stampe secentesche ritraggono la scultura dalla medesima prospettiva e in analogo stato di conservazione; in entrambe il capo della figura è cinto da una corona. Differiscono, tuttavia, nell’interpretazione dell’attributo stretto nella mano destra, che in quella di Boscoli sarebbe, secondo il Van Gelder, un fuso; in quella del Thomassin sono invece delle spighe di grano (Van Gelder 1985, p. 171, n. 84).
Nel 1828 in uno dei due elenchi che accompagnano la Quarta Nota sulle opere scelte per essere restaurate e collocate all’interno delle sale della Palazzina Borghese successivamente allo spolio napoleonico, la statua è menzionata nella sala VII, dove è tutt’ora visibile. I restauri integrativi degli attributi iconografici sono affidati a Giuseppe Boschi, come testimonia il pagamento di 14 scudi, datato al 21 gennaio, “in saldo di Metalli fatti ad una Statua nella Camera Egizia del Casino Nobile in Villa Pinciana” (Archivio Apostolico Vaticano, Archivio Borghese, B. 8098, p. 5, n. 42: Moreno, Sforzini 1987, p. 359). In occasione dell’intervento sono infatti aggiunti in bronzo alla scultura la situla trattenuta nella mano sinistra abbassata, il sistro in quella destra, e il fiore di loto sul capo. Il Nibby nel 1832 la descrive nella sala V (da intendersi come l’attuale Sala VII) “una bella statua d’Iside di grandezza un poco maggiore della naturale e di marmo pentelico”. L’autore osserva che gli elementi bronzei di cui è fornita non compaiono nelle rappresentazioni iconografiche del mondo egizio e risultano introdotti con l’importazione del culto della dea in ambito greco-romano (pp. 118-119). Il Venturi, nel 1893, la ritiene la raffigurazione di una sacerdotessa, per la presenza degli attributi in metallo aggiunti e la inquadra nel I secolo (p. 43).
La figura femminile è rappresentata stante, con la gamba sinistra leggermente flessa e avanzata, e quella destra, dritta, a sostenere il peso del corpo. Il braccio destro, lievemente proteso, è flesso al gomito, e nella mano sostiene il sistro, di restauro; il sinistro, steso lungo il corpo, sorregge la situla metallica. La donna indossa un lungo chitone munito di corte maniche trattenute da cinque bottoni sull’avambraccio che arriva a toccare il suolo lasciando scoperta solo la parte anteriore dei piedi. Sulla tunica è adagiato un himation, il mantello che avvolge il corpo in un doppio giro, formando uno sviluppo obliquo sul petto, fermato sulla spalla destra. Sul lato destro del corpo l’himation ricade con larghe pieghe verticali, formando un doppio risvolto, uno all’altezza delle ginocchia e un secondo all’altezza della caviglia sinistra. Il capo è coronato da una pettinatura a lunghe ciocche mosse, raccolte nella parte posteriore e scriminate all’altezza della fronte. Il Moreno ritiene il volto fortemente restaurato e attribuisce agli interventi l’incisione delle pupille, la prominenza delle guance e le quattro ciocche mosse ricadono sulle spalle, delle quali tuttavia si conserva l’attacco originario.
Il trattamento del panneggio, caratterizzato da fitte pieghe dal particolare dinamismo, richiama l’iconografia delle raffigurazioni arcaiche della fine del V secolo a.C., delle quali la statua Borghese è da considerare una rielaborazione inquadrabile nella prima età imperiale, il I secolo a.C. Tale modello si ritrova diffuso nell’iconografia delle sacerdotesse di Iside come si evidenzia in un bronzetto dall’area del limes dell’Impero, in Olanda, e in un rilievo funerario, conservato nel Museo Nazionale di Napoli, nel quale la defunta, Babullia Varilla, sacerdotessa di Iside, indossa una veste molto simile e sorregge i medesimi attributi (Zadoks-Josephus Jitta 1969, p. 60; Ruesch 1908, p. 187, n. 704).
In conclusione appare verisimile ritenere che gli interventi di restauro operati nel 1828 abbiano seguito un modello iconografico ben diffuso nell’antichità.
Giulia Ciccarello