La statua raffigura la dea Iside nella sua tipologia di Pelagia, signora del mare e protettrice dei naviganti, caratterizzata dalla particolare posizione delle gambe divaricate e dal panneggio annodato sotto al seno nel tipico nodo isiaco. La figura indossa un lungo chitone manicato che lascia scoperti i piedi, sul quale è adagiato il mantello provvisto di frange.
Acquistata nel 1607 dal Cardinale Scipione Borghese dalla famiglia Ceoli, la scultura è restaurata nella metà del XVII secolo come Cerere, con l’aggiunta degli arti e della testa in marmo bianco. Nella metà del XVII secolo è attestata in una nicchia nel parco della Villa Borghese e successivamente, nel 1832, nella Sala VII. Sull’osservazione delle caratteristiche stilistiche e dei confronti noti, è da ritenere una replica inquadrabile nel II secolo d.C. di modelli di impronta ellenistico-alessandrina.
Proveniente dalla collezione Ceoli, acquistata dalla famiglia Borghese nel 1607 (de Lachenal 1982, pp. 52-55); nella Collezione Borghese, è ricordata nel 1650 e nel 1700 in uno dei viali del Parco dal Manilli e dal Montelatici (p. 127; p. 44). All’interno della Palazzina nel 1832 è menzionata nella sala VII (Nibby, p. 120). Inventario Fidecommissario Borghese 1833, C., pp. 52-52, n. 166. Acquisto dello Stato, 1902.
La scultura proviene dalla collezione Ceoli, acquistata nel 1607 dal cardinale Scipione Borghese (de Lachenal 1982, pp. 52-55). La Kalveram ricorda un trasferimento della “statua di Biscio che fa atto di camminare” dal Casino Borghese al Parco, avvenuto tra il 1627 e il 1628 (p. 259, n. 218). In tale luogo la menziona il Manilli nel 1650, posta alla fine di uno dei due viali che costeggiavano il Palazzo “dentro vna nicchia trà due colonne di marmo nero, vna Statua di Cerere, più grande assai del naturale, di marmo bianco, con la veste di marmo nero (p. 127). Nel 1700 il Montelatici precisa che la figura si presentava “coronata di spighe; di cui eccettuando la testa, le mani, & i piedi, di marmo bianco, il rimanente di essa è tutto di marmo nero” (p. 44). All’interno della Palazzina il Nibby nel 1832 la indica nella camera V, attuale sala VII, denominandola “statua moderna di Cerere” (p. 120).
La donna è ritratta nell’atto di incedere verso destra, con la gamba destra avanzata e scartata di lato su cui grava il peso del corpo e la sinistra, frontale, indietreggiata a fornire lo slancio. Indossa un lungo chitone manicato, caratterizzato da sottili pieghe, che ricade fino a terra lasciando scoperte le punte dei piedi. Sulla veste è adagiato un mantello frangiato che, coprendo le spalle, è tenuto sotto il seno nel tipico nodo isiaco, il Knotenpalla, dal quale si diparte un viluppo di pieghe che si dispongono nell’ampiezza del passo. Il tronco e il capo mostrano una torsione frontale diretta allo spettatore. La figura femminile, restaurata in marmo bianco come Cerere con l’aggiunta degli arti e della testa, cinta da una corona di spighe, rappresentava, invece, la dea Iside. In particolare si tratta del tipo Iside Pelagia, protettrice della navigazione a vela e patrona dei marinai. Nelle raffigurazioni della dea attestate soprattutto su rilievi come quello di Delo del I secolo a.C. e su monete, gemme e lucerne, la figura veste un chitone altocinto e a gambe divaricate sulla prua di una nave, con le mani trattiene i lembi di una vela gonfiata dal vento (Bruneau 1961). In mancanza di un puntuale modello iconografico, appare difficile individuare un tipo statuario finito e le relative repliche (Bruneau 1974, pp. 353-381; Agnoli 2002, pp. 37-40). L’esemplare Borghese, come osservato dal Pucci, risulta privo del manto o della vela rigonfiata; tuttavia l’autore riconosce nella posizione delle gambe e nella veste isiaca gli elementi caratteristici della dea, e ipotizza che la vela potesse essere realizzata in un materiale deperibile come bronzo o addirittura stoffa, o che altrimenti la statua fosse inserita in un monumento più complesso (1976, pp. 1188-1190).
La scultura trova un confronto tipologicamente pertinente con la statua della collezione Torlonia, già Giustiniani, restaurata come Cerere (Inv. 180: Capaldi 2020, pp. 246-247) e con una conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, (Inv. 6372: Longobardo 2006, p. 148), entrambe caratterizzate dal forte contrasto tra il panneggio in marmo grigio e le parti del corpo in marmo bianco. L’impiego di marmi scuri, attestato nelle sculture a tutto tondo della dea, è probabilmente una peculiarità da mettere in relazione con il culto stesso. Apuleio nelle Metamorfosi riporta, infatti, che Lucio, al quale era apparsa in sogno la dea, fosse impressionato soprattutto dalla sua palla nigerrima splendescens atro nitore quae […] ad ultimas oras nodulis fimbriarum confluebat (XI, 3).
Alla luce dello schema compositivo e degli evidenti elementi stilistici, la dea mostra caratteri di ispirazione ellenistico-alessandrina, rielaborati in ambito romano nel II secolo d.C.
Giulia Ciccarello