La piccola statua ritrae una figura femminile stante sulla gamba destra, mentre la sinistra è flessa e scartata di lato. Indossa una lunga tunica, il chitone, che ne lascia scoperti i piedi e un ampio mantello, himation, che avvolge il corpo adagiandosi sul braccio destro piegato in avanti. Il braccio sinistro è steso lungo il corpo e leggermente flesso e nella mano sorregge un’oinochoe, una piccola brocca. La scultura si può ritenere la copia romana, inquadrabile nel II secolo d.C., di un originale arcaizzante, a opera di uno artista neoattico.
Restaurata nel 1828 da Antonio D’Este, la scultura era già stata precedentemente riadattata come Iside con l’aggiunta del fiore di loto sul capo e della brocca.
Originariamente posta sopra una colonna nel Salone, dove la ricordano Iacomo Manilli nel 1650 e Domenico Montelatici nel 1700, è individuata, nel 1838, da Antonio Nibby nella sala I. Infine Adolfo Venturi la cita, nel 1893, nella sala III, sua attuale collocazione.
La piccola scultura è menzionata da numerose fonti all’interno della Galleria Borghese: Iacomo Manilli nel 1650 la ricorda come “La Dea Cerere” e Domenico Montelatici, nel 1700, come “Cerere con li papaveri”, collocata sopra una colonna nel Salone (Manilli 1650, p. 56; Montelatici 1700, p. 195). L’Inventario del 1762 la descrive come “Dea del silenzio detta Iside”. Indicata nella sala I da Antonio Nibby nel 1838 (Nibby 1841, p. 914, n. 13), è infine testimoniata, nel 1893, da Adolfo Venturi nella sala III, sua attuale collocazione (Venturi 1893, p. 30).
La statua, di dimensioni minori del vero, rappresenta una figura muliebre panneggiata stante sulla gamba destra, mentre la sinistra, scartata di lato, è leggermente flessa al ginocchio e portata indietro. Indossa un chitone, la tunica, con sopra un himation, il mantello. La veste, con ampia scollatura tondeggiante e lunga fino a terra, lascia scoperte le punte dei piedi, mentre l’ampio panneggio avvolge il corpo della figura assecondandone il movimento delle gambe e del braccio destro, piegato in avanti a sorreggere un oggetto, probabilmente di restauro, sul quale ricade. Il petto è attraversato da una fascia di pieghe trasversali che dalla spalla sinistra terminano in uno sbuffo sotto il gomito destro, quasi premuto contro il fianco. Il braccio sinistro è leggermente flesso lungo il corpo e nella mano sorregge un’oinochoe. Il volto, dai lineamenti delicati, è incorniciato dai capelli che, suddivisi sulla fronte in due bande dalla scriminatura centrale, ricadono mossi sulle spalle. Il capo è coronato da un diadema composto da un fiore di loto di notevoli dimensioni.
Nel 1828 la statua è presente nello studio di Antonio D’Este come riportato nella “Quinta Nota degli Oggetti Antichi provenienti dalla Villa Borghese”, nella quale viene menzionata come “Statuetta di sacerdotessa di Iside di stile rigido, scolpita in marmo pentelico di proporzione di palmi 5 circa”(Moreno, Sforzini 1987, pp. 361-362). L’intervento si concentrò in particolare nella capigliatura e nel viso mentre l’attribuzione alla dea Iside, con l’apposizione del fiore di loto sul capo, è da assegnare a restauri precedenti.
Il motivo peculiare del Mantelwulst, il mantello obliquo, nel patrimonio figurativo greco di norma si associa strettamente a numerose immagini di Kore, mentre in epoca imperiale si ritrova impiegato soprattutto nella rappresentazione di personificazioni e ritratti. Nel caso della piccola scultura Borghese il chitone ionico, reso con fitte piegoline rigide e pesanti, e l’atteggiamento particolarmente statico della figura la individuano come una copia romana, inquadrabile nel II secolo d.C., di uno scultore neoattico, di un originale Kore di ispirazione arcaizzante. Una resa particolarmente attinente riguardo la veste e la rigidità complessiva della figura si ritrova in una statua di Cerere alla Gliptoteca di Monaco (Brunn 1873, p. 100, n. 79; Furtwängler 1903, tav. 26, 2). Un’impostazione maggiormente arcaizzante mostra invece una scultura, acefala, conservata nei magazzini dei Musei Vaticani (Kaschnitz-Weinberg 1937, p. 58, n. 103, tav. XXVII).
Giulia Ciccarello