Nella tavola è raffigurata una delle più famose favole mitologiche realizzate dallo Scarsellino nel periodo giovanile. È ritenuto tradizionalmente il pendant del Bagno di Venere (inv. 219), anche se quest'ultimo è tuttavia eseguito su tela. Il soggetto, frequentemente indicato come Diana ed Endimione è più correttamente interpretabile come Salmaci ed Ermafrodito. Tale mito narra infatti la storia dell'amore nutrito dalla ninfa Salmaci per il giovane figlio di Ermes e Afrodite, incontrato presso una fonte; il racconto vuole che la ninfa lo abbracciasse con tale passione che i loro due corpi si fusero in uno. L'opera esprime tutti i caratteri stilistici peculiari dell'artista, maturato nel clima della raffinata corte ferrarese ma sensibile alle ricerche coloristiche venete di Tiziano, del Veronese e del Bassano. Le due figure sono ambientate in uno scenografico paesaggio naturale dove le striature turchine del cielo sono interrotte da sfumature rosa-arancio, richiamate dai due putti sospesi e dalla veste di Salmaci appoggiata sulla sponda.
Collezione Borghese, Inventario 1693, Stanza VI, n. 321; Inventario 1790, Stanza II, n. 59; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 25, n. 20. Acquisto dello Stato, 1902.
Questa interessante quanto rara scena mitologica, che ancora nel catalogo dei dipinti della Galleria Borghese del 1955 veniva riconosciuta come Diana ed Endimione (Della Pergola 1955), rappresenta in realtà una storia tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, quella di Salmaci ed Ermafrodito (IV, vv. 285-388). In questa vicenda la bellissima ninfa Salmaci era custode di una fontana nella regione anatolica della Caria; Ermafrodito raggiunse questo luogo e, quando la giovane lo vide, se ne invaghì, abbracciandolo e pregando tutte le divinità di poter restare con lui per l’eternità. Al fine di esaudire tale richiesta, gli dèi decisero di unire i due in un unico corpo, ma Ermafrodito, visto il risultato, maledisse la fonte protetta dalla ninfa, giurando che chiunque si fosse bagnato in quelle stesse acque avrebbe sortito la stessa fine.
Il soggetto, sebbene non comune, era già stato raffigurato all’interno di uno dei medaglioni della volta della Galleria di Palazzo Farnese a Roma da Annibale Carracci, ma Scarsellino decide di rappresentarlo in un momento diverso rispetto a quello dell’unione dei due protagonisti. La composizione è dominata dalla spinta amorosa di Salmaci che, desiderosa di abbracciare il suo amato, guada il fiume per raggiungerlo e congiungersi finalmente a lui, pienamente in accordo con quella poetica degli affetti tipica della pittura emiliana a partire dalla teorizzazione di Gabriele Paleotti (1572). Ippolito si inserisce proprio tra quei pittori che applicarono questi insegnamenti, soprattutto nei primi decenni del Seicento, potenziando notevolmente la caratterizzazione psicologica ed emozionale delle storie raffigurate attraverso gli sguardi e i gesti che accompagnano la narrazione.
Oltre all’aquila posta all’estrema destra nella composizione, che è stata letta come un possibile riferimento araldico probante per la committenza Borghese (Della Pergola 1955), un altro elemento iconografico risulta utile per la comprensione della cronologia di questo dipinto. Nella parte alta della composizione si trovano due putti abbracciati nei quali possono essere individuati Eros e Anteros, simbolo dell’incontro dell’amore reciproco proprio come nel già citato cantiere decorativo della Galleria Farnese (Herrmann Fiore 2002). L’opera di Scarsellino sarebbe, dunque, un’evoluzione variata del tema già rappresentato da Annibale nei primi anni del secolo.
Il paesaggio dall’atmosfera e dai colori fortemente veneti, la grandissima attenzione all’elemento naturale, così come le sperimentazioni sulle figure e sulle riflessioni dei loro profili classicheggianti sullo specchio dell’acqua, che ricordano quelle compiute dall’Albani e da Domenichino nel secondo decennio del Seicento, contribuiscono proprio a datare la tavola intorno al 1615, quando la pittura ferrarese inizia ad aprirsi verso un nuovo ideale classico grazie ai contatti con la pittura carraccesca, iniziati già alla fine del Cinquecento con il cantiere decorativo di Palazzo dei Diamanti.
Lara Scanu