Il dipinto è citato nell’opera in versi che Scipione Francucci dedicò alla raccolta del cardinale Borghese, elemento che ne attesta la presenza in collezione almeno a partire dal 1613. L’opera è una delle numerose copie di un originale raffaellesco, da molti identificato con la versione conservata agli Uffizi, ed è stata più volte ricondotta alla cerchia più stretta dell’Urbinate.
Salvator Rosa (cm 196,4 x 177 x 9)
Roma, collezione Scipione Borghese, 1613; Inventario 1790, Stanza IV, n. 19; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 11, n. 29. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto rappresentante San Giovanni Battista è una delle numerose copie esistenti tratte da una fortunata invenzione di Raffaello. L’originale è stato a lungo ritenuto l’esemplare attualmente conservato agli Uffizi di Firenze, sulla cui autografia la critica non è oggi unanimemente concorde, pur essendo il dipinto di maggior qualità tra le circa quaranta opere di tale soggetto note in collezioni italiane ed estere (per un riepilogo delle copie cfr. Meyer zur Capellen 2005, II, p. 238).
San Giovanni appare in un’insolita versione giovanile, nudo e senza barba, con addosso una pelle di leopardo al posto di quella consueta di cammello. Il santo è raffigurato seduto, e alle sue spalle compare una parete di roccia da cui sgorga un ruscello d’acqua; dalla parte opposta, il paesaggio si sviluppa in profondità e si intravedono delle montagne con una ricca vegetazione che si stagliano contro un cielo azzurro e luminoso. Gli attributi del personaggio sono derivati dall’iconografia tradizionale: la croce posta in cima ad una canna, e indicata dal santo con la mano destra, e il cartiglio con l’iscrizione Ecce Agnus Dei, di cui è visibile solo la porzione finale.
Gli studi intorno all’esemplare degli Uffizi, da molti identificato con il San Giovanni che Vasari ricorda eseguito da Raffaello per Pompeo Colonna, presumibilmente dopo il 1517, hanno teso a sottolineare l’eco leonardesca nella gestualità del protagonista; questo elemento ha spinto a considerare il possibile impatto del passaggio di Leonardo a Roma, e delle sue elaborazioni del soggetto, sullo sviluppo del tema da parte dell’Urbinate (cfr. Forcellino 2019, pp. 361-364).
La prima notizia certa della versione romana del San Giovanni Battista è rintracciabile nell’opera in versi scritta nel 1613 da Scipione Francucci sulla raccolta del cardinale Borghese e ne attesta la presenza in collezione almeno a partire da tale anno. I successivi riferimenti sicuri all’opera si individuano in una “Nota delli Quadri Dell’Appartamento terreno di S.E. il Sig. Pnpe Borghese” e nel più tardo inventario di fine Settecento, in entrambi i casi descritta come copia di Giulio Romano da Raffaello. L’assegnazione all’artista ritorna anche nell’elenco fidecommissario del 1833, dove il dipinto compare alla voce “San Giovanni Battista, di Giulio Romano, largo palmi 6, oncie 11; alto palmi 7, oncie 9”. Il primo a discutere tale attribuzione è stato Giovanni Cavalcaselle, ipotizzando un autore di scuola ferrarese sulla scorta dell’analisi coloristica, tuttavia il riferimento a Giulio Romano o alla sua cerchia rimane prevalente in buona parte della critica successiva (Piancastelli 1891, p. 316; Venturi 1893, p. 199; Longhi 1928, p. 218; Della Pergola cit.; Forcellino cit.). Una vistosa eccezione è rappresentata da Giulia Barberini (1984, pp. 59-60), che riconduce il San Giovanni Borghese ad un ambito emiliano per la definizione del paesaggio sullo sfondo e per il trattamento di alcuni particolari, come i riccioli del protagonista, vicini ai modi di Agostino Carracci (cfr. anche Paesaggio con figura 1985, n. 22).
Proprio la maggiore ricchezza nel trattamento del paesaggio, insieme a lievi differenze iconografiche e nelle qualità cromatiche dell’opera Borghese rispetto all’esemplare degli Uffizi, hanno portato ad un episodico allontanamento dall’ambito di Giulio Romano, il cui legame con l’opera sembra comunque suggerito dalla plasticità dell’anatomia e dal disegno (Forcellino, cit.).
Pier Ludovico Puddu