Il dipinto, assieme al suo pendant raffigurante San Pietro (inv. 46), proviene dalla raccolta di Francesco Borghese e mostra quei caratteri tipici del clima culturale romano della metà del Cinquecento. Lo sfondo dorato, la visione dal basso e la posa della figura lasciano ipotizzare che entrambe le tele - di autore diverso - possano provenire da un unico complesso, nate forse come ante di un organo oppure come modelli per alcuni mosaici.
Raffigura l’apostolo Paolo, qui ritratto con un foglio stretto nella sua mano, una chiara allusione alle sue Lettere. L'opera è stata assegnata dalla critica al pittore sermonetano Girolamo Siciolante, le cui figure, caratterizzate da una monumentalità di evidente ispirazione michelangiolesca, mostrano quella grazia e quella ricercatezza cromatica tipiche delle opere di gusto raffaellesco.
Cornice ottocentesca con quattro palmette angolari (cm 160 x 99 x 9)
Roma, collezione Francesco Borghese, 1610 (Della Pergola 1959); Roma, collezione Giovanni Battista Borghese, 1610 (Della Pergola 1959); Roma, collezione Marcantonio Borghese, ante 1657 (Scannelli 1657); Inventario 1693, Stanza II, nn. 15, 26; Inventario 1700, Stanza II, n. 4; Inventario 1790, Stanza II, nn. 4, 5; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 10. Acquisto dello Stato, 1902.
Questa tela, insieme al San Pietro attribuito a Marco Pino (inv. 46), faceva parte della collezione di Francesco Borghese, fratello di Paolo V, passata alla sua morte, nel 1610, nelle mani di Giovanni Battista Borghese e da questi a suo figlio Marcantonio, primo erede del fidecommisso istituito dalla nobile famiglia. Ciò, di fatto, spiega come mai le due opere, presenti nell'inventario del 1610 di Francesco, non sono menzionate né da Iacomo Manilli (1650), né da Domenico Montelatici (1700), i quali descrivono i beni presenti nella villa e non nel palazzo di città, dove i due dipinti sarebbero stati custoditi.
La prima menzione da parte delle fonti appartiene a Francesco Scannelli che nel 1657 segnalò le due tele presso la residenza di Campo Marzio, assegnandole entrambe a Michelangelo Buonarroti: "Così in quelle stanze dei Borghesi alcuni Profeti dipinti di natural grandezza con lo studio ed intelligenza estrema [...]". Tale attribuzione, ignorata dall'estensore dell'inventario del 1693 ("un quadro in tela dorata di un Santo che sede sopra una nuvola del n. 314 con cornice dorata. Incerto"), si ripete sia nel 1700 ("Li due Apostoli di Michelangelo"), sia nel 1790 ("Due Apostoli in campo d'oro, Michelangelo Buonarroti"), ritornando nel Fidecommisso del 1833 e nelle schede di Giovanni Piancastelli (1891). Il primo a distinguere due diverse mani fu Adolfo Venturi (1893) che cautamente licenziò i due Apostoli come 'scuola bolognese della seconda metà del XVI secolo', riportati poco dopo in ambito romano prima da Guido Cantalamessa (1912), che riteneva il San Pietro superiore al suo gemello, e successivamente da Roberto Longhi (1928), il quale avvicinò il San Paolo ai modi di Daniele da Volterra e il suo pendant a Perin del Vaga e a Girolamo Siciolante da Sermoneta. Muovendosi nel solco tracciato da Longhi, Paola della Pergola (1959) parlò di 'Maestro romano della corrente michelangiolesca', giudicando 'più nobile, grandioso e libero' il dipinto raffigurante il santo di Tarso. Nella stessa sede, inoltre, la studiosa tenne a riportare il parere orale espresse da due suoi colleghi, ossia quello di Federico Zeri, che nel frattempo aveva accettato l'ipotesi dell'esecuzione dei dipinti da parte di due diversi artisti, escludendo però il pittore sermonetano; e quello di Philip Pouncey che proponeva di assegnare il San Paolo a Santi di Tito. Caduta la loro proposta, la critica ha ritenuto opportuno riesumare l'attribuzione al Siciolante (Stefani 2000; Herrmann Fiore 2006), nonostante John Hunter, nella sua monografia dedicata al pittore sermonetano (Hunter 1996), non accenni per niente a tale discussione.
Se la questione sulla paternità dell'opera resta dunque ancora aperta, nessun dubbio sembra invece aleggiare sull'ipotesi che le due tele siano parte di un'unica commissione, come confermano la medesima visione dal basso e la specularità delle due figure, entrambe raffigurate su sfondo dorato e con i piedi sulle nuvole. Come suggerito dalla critica, è probabile inoltre che i due dipinti siano nati come ante di un organo (Zeri in Della Pergola 1959), o come modelli da tradurre in mosaico (Longhi 1928; Zezza 2003), ipotesi al momento più credibile.
Antonio Iommelli