L’opera, dipinta da Annibale Carracci intorno al 1594, è attestata in collezione Borghese a partire dalla metà del XVII secolo, riferita negli inventari antichi all’ambito della pittura veneta del Cinquecento.
Il soggetto è tratto dall’Antico Testamento (Giudici 15,11-13) e raffigura Sansone che, legato nella caverna di Etam dagli uomini di Giuda, medita la propria vendetta. Ai suoi piedi giace una mascella d’asino con cui l'eroe, assistito da Dio, ucciderà mille Filistei.
(?) Roma, collezione Ludovisi, 1633 (Posner 1971, II, p. 34, n. 83); Inventario 1693, Stanza III, n. 14; Inventario 1700; Inventario 1790, Stanza III, n. 2. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto entrò in collezione Borghese in data imprecisata, segnalato per la prima volta da Iacomo Manilli nel 1650 come opera di Sebastiano del Piombo. Poco dopo - nel 1678 - Malvasia assegnò debitamente la tela ad Annibale Carracci, diversamente dall'autore dell'inventario del 1693 che dal canto suo accostò l'opera a Tiziano Vecellio, attribuzione ripresa e sostenuta nel 1713 da Giacomo Pinarolo.
Nel 1878, Giovanni Battista Cavalcaselle confermò - con qualche riserva - il nome dell'artista cadorino, seguito da Adolfo Venturi (1893) che nella Storia dell'arte italiana (1928, III, p. 301), mise a confronto la tela col Fiume del Museo di Capodimonte, eseguita - secondo lo studioso - da Tiziano "dopo che a Roma fu colpito dalla grandiosità michelangiolesca, ed ebbe copiato il Laocoonte" (Venturi 1927, p. 276). Il primo a riprendere e a sostenere il nome suggerito da Malvasia fu Roberto Longhi (1928. p. 137) che fissò l'esecuzione del Sansone al periodo bolognese di Annibale Carracci, avanzando una datazione al 1590-1595. Lo studioso, inoltre, ritenne il dipinto: "una di quelle accademie alla veneta e, per intenderci meglio, alla tintorettesca, che credo servissero ad Annibale per studio di quei nudoni che fungono da termini in affreschi sul genere di quelli di Palazzo Sampieri", parere accolto positivamente da Aldo De Rinaldis (1939, p. 27).
Seguendo la tesi di Longhi, Donald Posner (1971, II, p. 34, n. 83) avanzò la proposta che la tela fosse una dei "Tre quadri tutta d'una grandezza con tre ignudi copiati dalla Accademia di Mano d'Agostino, e d'Anibale Caracci", segnalata a Roma, in collezione Ludovisi, nel 1633 (cfr. Garas 1967, p. 347).
Come narrato nel Libro dei Giudici (Giudici, 13-16), il quadro rappresenta l'eroe biblico dalla forza prodigiosa, ritratto mentre immobile attende nel buio della caverna l'aiuto divino che lo libererà miracolosamente dalla sua prigionia. Infatti, secondo l'episodio veterotestamentario, Sansone, fu legato con alcune corde nella caverna di Etam e trascinato con forza nella cittadina di Lechi dove, salvato da Dio, uccise una moltitudine di Filistei con una mascella d'asino trovata lungo la strada.
In questa dipinto, Annibale Carracci pone l'accento sul momento precedente l'intervento divino e la strage compiuta dall'eroe biblico, sottolineando attraverso la fisicità del corpo la straordinaria potenza intellettuale del soggetto raffigurato. La sua posa, inoltre, memore dei Prigioni michelangioleschi, fu ripresa qualche decennio dopo nell'Amor sacro e Amor profano (Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, inv. GNPS 111) da Guido Reni che, contrariamente al Sansone di Annibale Carracci, conferì al suo capriccioso e ribelle protagonista quel pizzico di frivolezza e irrazionalità.
Tenendo conto di alcune analogie con il San Rocco della Gemäldegalerie di Dresda, sir Denis Mahon ha fissato la datazione del dipinto al 1594 circa (1957, p. 282), parere accolto favorevolmente da tutta la critica.
Antonio Iommelli