Il dipinto appartiene al periodo giovanile del pittore, caratterizzato dall’assorbimento delle più fresche novità artistiche contemporanee. In questo senso la tavola rappresenta una delle testimonianze più stringenti dell’apertura del pittore verso il panorama artistico oltre gli appennini, non solo per via indiretta, attraverso il magistero di Marco Zoppo, ma attraverso una visione diretta della pittura fiorentina, umbra e romana. Un avvicinamento che sembra avvenuto alla metà degli anni Ottanta del Quattrocento, data la stringente relazione con le grandi pale del decennio successivo.
Firenze, collezione Camillo Borghese XVIII sec. (Negro 1998, p. 133); Roma, collezione Francesco Borghese, registrato nell’inv. 1837 (Inventario Cam. II, n.50). Acquisto dello Stato, 1902.
in basso su cartiglio ‘VINCENTII DESIDERII VOTVM./ FRANCIE EXPRESSVM MANV’
In esposizione temporanea alla Galleria Nazionale d'Arte Antica per la mostra "Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini"
Il carattere devozionale della tavola è testimoniato oltre che dalla soluzione del soggetto, anche dall’iscrizione presente sul cartiglio alla base della figura del santo, poggiato ad alcune pietre. Queste, assieme ai rivoli di sangue dalla fronte che ne contornano il viso, rappresentano gli unici riferimenti al martirio avvenuto.
L’iscrizione sembra poter alludere ad una commissione bolognese, tuttavia circa la provenienza dell’opera sappiamo poco tra XV e XVI secolo. Una menzione inventariale lo dice presente nell’abitazione fiorentina di Camillo Borghese (Negro 1998, p. 133). Da questi sarebbe poi arrivato in casa Salviati e da questi a Francesco Borghese presso cui sarebbe stato inventariato nel 1837 (Della Pergola 1955, p. 37). Non è presente nell’elenco fidecommissario, ma è tra le opere scambiate con il creduto Ritratto di Cesare Borgia attribuito a Raffaello e venduto al barone Rotschild nel 1891.
Discordanze vi sono anche in relazione alla datazione dell’opera, certamente da riferire al periodo giovanile del Francia, definito da Della Pergola «condotto con una purezza d’animo che si identifica con la quieta religiosità dell’immagine» (Della Pergola 1955, p. 37). La stessa studiosa, seguita poi dalla bibliografia successiva fino a Marzocchi (2008), basandosi su elementi stilistici, data la realizzazione della tavola intorno al 1475, una proposta che collima con le prime opere note del pittore. Venturi metteva in relazione la tavola con la Crocifissione della Biblioteca comunale di Bologna e con la Madonna del Senatore Bianchini a Berlino, la cui realizzazione è collocata prima del 1485. Rispetto alla prima, Bacchi ha proposto di ravvisarvi «una più sciolta e meno sofferta sintassi quasi ad indicare un progressivo allontanamento da Ercole». Per un avvicinamento agli anni Novanta del XV secolo è anche la descrizione fatta da Marzocchi che, collocando la tavola alla seconda metà degli anni Ottanta del Quattrocento, vi ravvisa «una fusione cromatica meno icastica e più naturale […] che fa di tale immagine quasi una sorta di passaggio verso le grandi pale degli anni novanta» (Pace Marzocchi 2008, p. 114).
In questi termini il dipinto è spesso preso a modello quale testimonianza della vasta conoscenza della pittura contemporanea da parte dell’artista, probabilmente per mezzo di una visione diretta (Ferrara 1971, p. 87). Da Venturi è sottolineata la «fierezza dell’orafo» nella lenticolare descrizione quasi ‘cesellata’ dei contorni della veste del santo martire, che risalta nel rosso steso a grandi pennellate capace di assumere la consistenza dello smalto (Venturi 1893, p. 67). Delicatezze e raffinatezze orafe che fecero la fortuna della pittura del Francia, qui applicate nelle liste gialle incise quasi a bulino e nella dalmatica del santo, per poi avere un richiamo nelle foglie d’acanto delle basi delle colonne poste ai lati e infine un riverbero in quella del parapetto in secondo piano. Certamente il dipinto rappresenta una lungimirante apertura del giovane Raibolini alle novità fiorentine di matrice verrocchiesca, pur mantenendo nel metallico panneggio della veste lo sguardo rivolto alla pittura ferrarese. L’apertura del paesaggio sullo sfondo è definita da De Rinaldis «con gli stessi criteri che hanno guidato l’artista nell’esecuzione del martire in preghiera» (De Rinaldis 1939, p. 42).
Fabrizio Carinci