Il personaggio è rappresentato, come di consueto nella ritrattistica di Antonello, di tre quarti e a mezzo busto su uno sfondo buio. L’espressione e lo sguardo vivissimi costituiscono l’aspetto più coinvolgente dell’opera, considerata uno dei capolavori della fase matura dell’artista. L’uomo ritratto indossa una veste rossa e una berretta nera, tipici capi d’abbigliamento di quei patrizi veneziani che furono estimatori e committenti di Antonello da Messina. Per ragioni stilistiche, il dipinto si deve fare risalire alla trasferta veneziana del 1475-1476. La tavola non è firmata, ma è stato ipotizzato che il nome del pittore fosse su un cartiglio posto direttamente sulla cornice. L’opera è elencata per la prima volta negli inventari Borghese del 1790 con l’attribuzione a Giovanni Bellini e fu restituita ad Antonello solo nel 1869. Studi recenti escludono le ipotesi, formulate in passato, di una sua identificazione con il ritratto del patrizio Michele Vianello presente nel XVI secolo in un’importante collezione veneziana, come l’eventualità della sua provenienza dalla collezione seicentesca di Olimpia Aldobrandini.
Cornice a doppio ordine con motivi fitomorfi e a candelabra, dorata a guazzo con bolo rosso.
Collezione Borghese, citato per la prima volta nell’inventario del 1790 (Stanza III, n. 19); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, B, p. 23, n. 12. Acquisto dello Stato, 1902.
La prima notizia del dipinto si rintraccia nell’Inventario Borghese del 1790 ca., con un’attribuzione a Giovanni Bellini. Già Platner (1842) esprimeva dei dubbi sull’autografia di tre ritratti maschili riferiti al Giambellino presso la Galleria Borghese, non sbilanciandosi però sulle possibili paternità dei dipinti. Si deve a Otto Mündler (1869) il merito di aver ricondotto l’opera alla mano di Antonello da Messina nell’edizione da lui curata del Cicerone di Burckhardt, avanzando l’idea che potesse probabilmente trattarsi di un autoritratto. In realtà, non esistendo elementi stringenti a favore di questa tesi, deve piuttosto ritenersi uno dei numerosi ritratti che il pittore siciliano eseguì per mercanti ed esponenti dell’alta borghesia durante il suo soggiorno veneziano, che si estese dal 1475 al 1476. Difatti, aldilà degli indumenti tipici di un patrizio veneziano che il soggetto esibisce, eloquenti sono i rapporti con alcuni ritratti eseguiti da Antonello in quegli anni, come gli esemplari del Musée du Louvre e del Museo civico d’Arte Antica di Torino, entrambi firmati e datati rispettivamente 1475 e 1476.
Per il contesto veneziano cui deve essere quindi messo in relazione il dipinto, Crowe e Cavalcaselle (1871) sostenevano che questo ritratto fosse una delle «due teste in do tavolette minori del naturale» citate da Marcantonio Michiel – quello di Michele Vianello, per l’esattezza – in casa di Antonio Pasqualino nel 1532, «fatti ambedoi l’anno 1475, come appar per la sottoscrizione» (M. Michiel, Notizia d’opera di disegno nella prima metà del secolo XVI esistenti in Padova, Cremona, Milano, Pavia, Bergamo, Crema e Venezia, 1521-1543, ed. a cura di Gustavo Frizzoni, Bologna 1884, pp. 150-152.). Il fatto che il dipinto della Galleria Borghese non presentasse però né firma né data veniva spiegato da Crowe e Cavalcaselle con una presunta decurtazione della tavola, eventualità smentita da Della Pergola (1955) che non ravvisa segni di un intervento simile sull’opera dal momento che «la superfice dipinta termina tutto intorno a mezzo centimetro più su della tavola, la quale si presenta nei quattro lati assolutamente omogenea e non ha certo subìto tagli posteriori alla sua origine». È stato più volte suggerito (Della Pergola 1955; Sricchia Santoro 1986, 2017; Lucco 2006; Bologna e De Melis, 2013) che il cartiglio, ricorrente in molti dipinti di piccolo formato del messinese, potesse trovarsi sulla cornice, come nel caso dell’Ecce Homo della Galleria Nazionale di Palazzo Spinola di Genova. Quest’ultimo argomento non può tuttavia essere usato per forzare il rapporto tra la testimonianza della fonte e l’identità dell’effigiato, che a oggi rimane senza un nome.
Da chiarire rimane anche il destino che ha interessato la tavola prima del 1790, nonostante siano state fatte negli studi alcune ipotesi. La tesi di Della Pergola (1955), che il dipinto fosse arrivato in collezione grazie al matrimonio tra Paolo Borghese e Olimpia Aldobrandini, è stata confutata o accolta con poca convinzione (Barbera 1998; Sricchia Santoro 1986, 2017; Tarissi de Jacobis, in D’Orazio 2002, pp. 104-105; Lucco 2006;) in quanto la descrizione che si legge nell’inventario di Olimpia del 1682 non corrisponderebbe col nostro ritratto e perché inoltre la massima parte della collezione della principessa passò al figlio di secondo letto Giovanni Battista Pamphili (Tarissi de Jacobis, in D’Orazio 2002, pp. 104-105). Arbace (1993) non abbandona l’idea di riconoscere in questo ritratto Michele Vianello, pensando che sia la «bella testa del missinese» acquistata da Isabella d’Este dopo la morte del veneziano avvenuta nel 1506, donata poi al fratello cardinale e arcivescovo Ippolito d’Este e passata a Pietro Aldobrandini, e quindi infine ai Borghese. Questa proposta è stata respinta (Tarissi de Jacobis, in D’Orazio 2002, pp. 104-105; Lucco 2006) dal momento che, se il dipinto fosse appartenuto al figlio di Enrico I, Ippolito, alla morte di quest’ultimo nel 1520 avrebbe dovuto conoscere delle vicende ereditarie che non spiegherebbero la sua possibile identificazione con l’opera presente a Venezia nel 1532, firmata e datata, così come racconta Michiel.
In ogni caso, il dipinto è uno dei migliori esempi della ritrattistica eseguita da Antonello a Venezia. La tavola, se si eccettuano il fenomeno di imbarcatura di cui è oggetto e alcune fenditure orizzontali, si presenta in buone condizioni. Un’alterazione che salta all’occhio è quella delle lumeggiature del manto che, eseguite a cinabro, hanno assunto un colore grigio a causa di un processo di ossidazione, in apparenza verde prima del restauro del 2002 che ha restituito la piena leggibilità dell’opera peraltro consentendo anche di leggere meglio il copricapo dell’effigiato (Seracini, in D’Orazio 2002, pp. 108-113).
Benché la difficoltà a identificare il dipinto col ritratto di Michele Vianello abbia a più riprese indotto alcuni studiosi addirittura a retrodatare la tavola agli anni precedenti alla trasferta veneziana (L. Venturi 1907; Longhi 1914; A. Venturi 1915; Bottari 1939; De Rinaldis 1949; Della Pergola 1950, 1954; De Logu 1958; Wright 1987), il dipinto non nasconde la stretta parentela con altri ritratti della metà degli anni Settanta, come si diceva in apertura.
L’uomo, che qui viene ritratto di tre quarti su un fondo scuro, guarda l’osservatore accennando un sorriso e assumendo un’espressione di velata ironia: di Antonello è mirabile la capacità di restituire la profondità psicologica del soggetto di cui, in questo caso, quasi si percepisce l’indole mite e bonaria. La caratterizzazione fisionomica è data anche dal sapiente uso della luce che tornisce i volumi del volto in cui, allo stesso modo del ritratto del Louvre, le tempie pulsanti e le carni morbide si manifestano ora attraverso i contrasti d’ombra che si allungano fino al sottomento, ora attraverso piccoli barlumi che bagnano di luce le labbra, la punta del naso e i solchi che dalla caruncola si estendono fin sotto gli occhi, con una «stupefacente capacità di rendere la sensazione quasi tattile della materia fisica» (Marabottini 1981, p. 44). Le suggestioni ottiche di certa pittura fiamminga che avevano interessato Antonello nella fase giovanile qui si allentano per lasciare spazio a una stesura pittorica più fluida e calda, che si sofferma«sopra un particolare microscopico senza cadere nel realismo» (Longhi 1914): le sopracciglia, ad esempio, sono risolte ormai con un gesto meno calibrato del tutto rapportabile a quello che informa lo stesso brano nel Ritratto d’uomo di Torino; la pennellata si fa disposta a narrazioni di compendio nella resa delle labbra, nonché nei passaggi d’ombra degli occhi e in particolare di quello destro che pare già esplorare la strada verso la riduzione ad un’assolutezza volumetrica. Del resto nella tavola di Galleria Borghese sembrano incipienti modalità di sintesi prospettica e formale che di lì a poco Antonello avrebbe meglio conquistato, con la piena ricezione delle istanze di Giovanni Bellini, nel già citato ritratto di Torino e nell’Annunciata di Palazzo Abatellis a Palermo.
In forza di questi argomenti, benché sia difficile stabilire l’ordine cronologico preciso delle opere eseguite in laguna, è forse ragionevole accogliere l’idea di Lucco (2006) di preferire una datazione verso il 1476, tanto da accordarsi all’impressione di Crowe e Cavalcaselle (1912) che vedevano il ritratto Borghese «perhaps more Venetian in air» rispetto al dipinto del Louvre.
Emiliano Riccobono